Storia

1. È lo spazio a definire l’identità

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Ci sono posti del mondo dove la storia funziona al contrario. Sono di solito i posti di confine, a maggior ragione se il confine non è solo geografico ma anche culturale, cronologico, politico. D’altronde, non esiste un confine che sia solo geografico. Ci sono posti in cui basta andare avanti di un metro e sei un carnefice, e se arretri di un metro, sei una vittima. È lo spazio a definire l’identità.

I posti dove la storia funziona al contrario non sono involuti o evoluti. Sono posti dove le cose avvengono in modo esattamente opposto a quanto sta avvenendo nelle zone vicine o talvolta nel resto del mondo.

La Provincia di Gorizia nei mesi a ridosso dell’Armistizio dell’8 settembre era uno di questi posti. I suoi confini, modificati poi negli anni del Regime, erano in sostanza stati definiti dopo la Grande Guerra. Si trattava di un cuscinetto di terra che stava tra i confini storici dell’Italia e la provincia di Lubiana. Quest’ultima era stata conquistata dall’Italia qualche anno prima in un terribile rigurgito colonialista e imperialista che vide il Regno di Jugoslavia smembrato in tre, come pezzi di carne strappati da una carcassa. Regno di Ungheria, Reich e Italia i predatori.

Quello che avveniva al di là del confine della provincia goriziana ancora era come una nebbia indistinta ma era chiaro che da quella zona di confine i flussi erano importanti e strategicamente rilevanti: i partigiani jugoslavi già dalla caduta del Duce avevano deciso di aspettare e vedere che cosa avrebbero fatto gli italiani. Questi ultimi, coerenti con l’incoerenza badogliana, facevano finta di garantire l’ordine precedente lasciando poi ai singoli comandanti il compito di decidere il grado di iniziative e di interventi da attuare contro i ribelli. Appena noi italiani siamo arrivati lì nella zona di Lubiana, nel 1941, abbiamo iniziato a bruciare case nei villaggi, a deportare gente nei nostri campi di concentramento, a mandarne altra a combattere nelle truppe speciali. Niente di più e niente di meno rispetto a quanto facevano i nazisti. Eravamo gli occupanti. Era giusto. Era ordinaria amministrazione. I partigiani erano loro: gli italiani, nella provincia di Lubiana, recitavano il ruolo dei tedeschi in Italia.

All’indomani dell’8 settembre si sarebbero create formazioni partigiane (o “bande”, come le chiamavano i detrattori) anche al di qua dei confini italiani e bisognava gestire i rapporti coi compagni jugoslavi, che non erano semplici. I tedeschi intanto premevano per invadere anche quella parte di carcassa che ci avevano gettato qualche anno prima e che adesso rivolevano indietro perché non si fidavano. Perché eravamo così vigliacchi da non riuscire nemmeno a essere pienamente fascisti, per loro. Mentre, per i partigiani jugoslavi, eravamo così vigliacchi da non riuscire nemmeno a essere pienamente antifascisti.

Storie e ideali che transumavano lungo quelle linee di confine come bestie indifferenti.

L’8ª Armata era sotto i comandi del generale Italo Gariboldi, l’uomo che aveva avuto il comando dell’Armir fino a pochi mesi prima, cosa che non faceva dormire sonni tranquilli ai suoi sottoposti. L’Armata aveva il proprio comando a Padova ed era suddivisa in tre Corpi. Uno di questi tre, il XXIV°, era al comando del generale Licurgo Zannini e aveva sede a Udine. Il Corpo di armata aveva competenza nei valichi di Tarvisio, Caccia e Piedicolle. Era formato da una miriade di battaglioni e divisioni provenienti dalla Grecia, dall’Albania, dalla Russia, dalle zone occupate della Jugoslavia. Alcuni di quei soldati erano esperti nell’arte di stroncare la resistenza nemica. Teorici del concetto di responsabilità collettiva, professionisti della rappresaglia sui civili, devoti del rastrellamento. Altri soldati di quei battaglioni invece divennero fedeli alla causa dei partigiani greci e non fecero mai più ritorno in Italia. Non fu facile per loro farsi accettare, come non sarebbe stato facile per un ufficiale tedesco unirsi ai partigiani italiani. Alcuni di loro furono usati dai partigiani greci e poi uccisi, perché la vendetta andava gustata con calma. Altri invece si integrarono con i soldati e con la popolazione e occuparono posti di comando.

Soldati addestrati a combattere, impauriti, vigliacchi, sfortunati, coraggiosi o preparati. O “professionali”, come si direbbe oggi, con ipocrisia occidentale. Scarichiamo nella cloaca nazista i mali irriferibili della nostra coscienza nazionale e ci voltiamo dall’altra parte quando c’è da riflettere sul fatto che anche noi siamo stati carnefici e criminali. Scivola da un estremo all’altro il pendolo dello stereotipo, oscillando da un punto in cui siamo vittime, all’altro in cui siamo carnefici. Il movimento più veloce è quello che sta nella distanza tra i due estremi, ed per questo che è più difficile da fermare e osservare.

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