
C’è da sospettare che tutta la storia evolutiva umana cominci da un’attesa. La sua fenomenologia infatti inizia già con il concepimento e si trasforma di settimana in settimana fino alla nascita. La gravidanza è la madre di tutte le attese perché è attiva, cioè comporta una trasformazione nel corpo e nella mente di colei che attende.
Nessuna donna è uguale a prima che avvenga una simile attesa. D’altro canto, se è vero che il corpo del padre non muta durante un’attesa, non è men vero che non muti la mente, che si trasforma gradualmente proiettandosi verso la creatura che sta per nascere. Qualunque cosa accada, quest’ultima rappresenterà la compiutezza di questa tensione.
E già perché quando si parla di attesa si parla essenzialmente di tensione. L’etimologia del termine “attendere” infatti fa risalire il termine al latino “ad-”, cioè “verso”, e “tĕndĕre”, rivelando il rapporto dialettico che colui o colei che attende intrattiene con l’oggetto atteso. Il punto è definire con che cosa si instaura questo rapporto, che ontologia ha l’ente che si fa attendere, qual è l’orizzonte in cui si muove, dove risiede il suo cominciamento.
Per rispondere a questa domanda potremmo fare alcuni esempi. Senza cadere in un rigido e vano determinismo storico, conviene partire dal momento in cui l’uomo rivolge il suo sguardo verso il cielo. Sappiamo che la filosofia occidentale nasce dall’osservazione dell’uomo dei fenomeni naturali. “Fisici” si chiamavano i primi filosofi che a loro volta avevano rielaborato la cultura sapienziale orientale. Ma prima, prima ancora, l’uomo ha innanzitutto rivolto lo sguardo verso il cielo osservando due elementi, e cioè quelli più facilmente osservabili: il sole e la luna, con le sue fasi di transizione. Parallelamente a questa forma di attesa, utile a decifrare il mistero degli astri, gli esseri umani si sono esercitati con meticolosa e istintiva caparbietà ad attendere la preda per poterla uccidere e per potersi sostentare. Sono due attese diverse, un’attesa del corpo e un’attesa dello spirito, ma entrambe sono state motori potenti della nostra evoluzione. Non è un caso che le prime caste sacerdotali fossero formate da coloro che studiavano gli astri, ovvero che sapevano attendere, e che si esercitavano a rendere prevedibile l’oggetto dell’attesa. L’oracolarità si fonda su una lucida previsione del futuro, che è l’altra faccia della medaglia dell’alleggerimento di un’attesa.
La prima attesa, quella basata sulla verifica delle transizioni della luna nel ciclo siderale, si fa risalire al Paleolitico superiore franco-cantabrico, quindi oltre 10000 anni fa, prima ancora della scoperta dell’agricoltura (e quindi di un’altra attesa, cioè quella del raccolto).1
Si basava su una registrazione delle transizioni lunari attraverso delle tacche che venivano fatte su diversi supporti, ossa o pareti di roccia, secondo alcuni ritrovamenti. Il ciclo lunare infatti dura 28 giorni ed è impossibile riconoscere a occhio nudo il divenire della luna e puntarlo ogni notte con un dito. Così si incideva un supporto che precedentemente era stato perimetrato da una cornice, cioè da un orizzonte, in modo da fornire una sequenzialità. La distanza tra una tacca e l’altra in questi supporti, rappresenta pertanto la prima testimonianza di un’attesa, un giorno trascorso con una tensione verso qualcosa, una smentita o una conferma, un movimento e una transizione di stati spaziali o corporei. Allo stesso modo del ciclo di vita biologico femminile, che scorre parallelo e dialoga in continuazione con le transizioni lunari (almeno fino alla nascita della luce artificiale, che secondo molti ha alterato questa amicizia che la donna intratteneva con la luna). Allo stesso modo degli uccelli migratori, che impazzirebbero se non ci fosse una loro bussola biologica interiore capace di orientarli tra le case della luna e gli animali furiosi dello zodiaco. In definitiva, per chiudere, appunto, il ciclo, anche gli esseri umani hanno dovuto piano piano ricostruire il filo del loro orientamento nel mondo e dei mutamenti del proprio corpo, e lo hanno fatto attraverso la pazienza di un’attesa, conclusasi dopo 28 giorni, quando finalmente la luna tornava al suo punto iniziale. Nasceva dunque una rassicurante definizione del tempo, da cui conseguiva un orizzonte. Secondo alcuni, proprio per esorcizzare la paura che questo ciclo potesse alterarsi, è nato l’archetipo della bambina che si perde diventando possibile preda degli animali feroci: Cappuccetto rosso che si perde nel bosco, nella nostra restituzione culturale, niente altro è che la luna che si perde nello spazio delle costellazioni. Niente altro che una dis-attesa, quella dell’uomo che osservava le stelle o del cacciatore che non aveva saputo controllare la ferocia della natura. Avvenimenti terribili, che impedivano all’uomo di segnare un’altra, rassicurante tacca nell’osso o di potere darsi una spiegazione di una periodica emorragia, o di alleggerire la tensione di non far più ritorno dai propri simili.
Quindi questo tempo incerto che costituisce l’orizzonte dell’attesa e che è l’altro termine di paragone attraverso cui si articola questa dialettica, ha generato sapienza e conoscenza. Ma attenzione, non vi sono solo queste primordiali forme di attesa: potremmo per esempio pensare all’attesa che arrivi un determinato fenomeno atmosferico, che però è pur sempre legata all’osservazione del cielo. Oppure vale la pena riferirsi a un’altra attesa archetipica, che è quella del bambino che attende la madre. Processo di reciproco, incredibile e vicendevole amore, questo. Se prima era l’attesa della gravidanza a trasformare la donna, adesso è l’attesa della madre a trasformare il bambino. Colui che attende insomma, è sempre colui che muta.
Su questa forma di attesa ci viene in soccorso S. Freud, che in “Al di là del principio di piacere” ci riferisce questa scena relativa al suo nipotino:
Questo bravo bambino aveva l’abitudine – che talvolta disturbava le persone che lo circondavano – di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi (…). Nel fare questo emetteva un “o-o-o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era un’interiezione ma significava “fort” [cioè “via”]. Un bel giorno mi capitò di fare un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno con un pezzo di spago arrotolato: ebbene, mai gli venne in mente di trascinarselo dietro per il pavimento, di usarlo, per esempio, come un carrettino. Quel che invece gli piaceva fare era tenere in mano lo spago e scagliare con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse; contemporaneamente egli emetteva il suo caratteristico “o-o-o-o”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso “da!” [“eccolo”]. Questo, dunque, era l’intero gioco: scomparsa e ritorno. Anche se per solito si poteva osservare solo la prima parte del gioco, di per sé instancabilmente ripetuta, non v’è dubbio che era la seconda parte quella che procurava il maggior piacere. Il bambino quindi permetteva senza proteste che la madre se ne andasse. Egli si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso del comparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere”.2
Il ritorno della madre per il bambino è come il ritorno della luna per il sacerdote. La compensazione di un’attesa, che in questo caso il bambino simbolizza con un gioco, serve a ripristinare il principio di piacere, a rendere sopportabile la terribile tensione dell’abbandono.
La luna, il gioco, il sangue, la preda. Adesso andiamo un po’ più avanti e proviamo a definire meglio questo orizzonte di attesa, che non sembra quindi essere definito solo da un “se” ma anche da un “quando”. Tornando infatti al nostro uomo del paleolitico, alla nostra donna in attesa di un bimbo, al nostro cacciatore che aspetta la preda o al nostro bimbo che gioca con un rocchetto, tutti e quattro, una volta appurato che è certo che l’evento prima o poi accadrà, passeranno a cercare di capire “quando” accadrà. Si introduce quindi una nozione di tempo, ancora non codificato – sono questi esseri umani infatti i primi nostri codificatori.
1 G. Sermonti, L’alfafabeto scende dalle stelle, Mimesis, 2009.
2 In S. Freud, Opere I parte, Gruppo Editoriale L’Espresso, ed. 2006, pp. 188-189.