Storia

2. Un ragazzo

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Questa voce fa parte 2 di 3 nella serie Storia di un partigiano calabrese

Arrivato a Torino, Nino non fece in tempo ad abituarsi alla vita in caserma che tutto cambiò repentinamente. Nel giro di nemmeno tre settimane le cose cominciarono a prendere una piega diversa, con Badoglio che annunciava l’armistizio senza però precisare con chi stava l’Italia. Questo aveva definitivamente portato i tedeschi ad adottare soluzioni drastiche contro gli italiani che si rifiutavano di combattere con loro: deportazione o in alcuni casi fucilazione nel caso si fossero rifiutati. La scelta per gli italiani era combattere insieme ai tedeschi, resistere oppure tornarsene a casa, e forse al ragazzo gli è venuto il prurito alle mani a pensare che forse si sarebbe potuto imboscare per qualche settimana tra le braccia ombrose dell’Aspromonte, terra che da sempre era stata generosa nei confronti di coloro che scappavano da qualcuno o da qualcosa, dagli eremiti ai latitanti. Chissà che cosa avvenne in quelle settimane che separavano l’arrivo di Nino a Torino dall’armistizio. Quello che sappiamo è che, a partire dal 12 settembre, il ragazzo è già con un fazzoletto rosso intorno al collo e il berretto con la stella rossa in fronte, perfettamente integrato nella 114ª Brigata Garibaldi comandata da un operaio comunista dai modi spicci di nome Carlo Ambrino, soprannominato Negro. La Garibaldi era la Brigata del PCI, la più politicizzata, a tal punto che quando c’erano da sganciare viveri, gli alleati preferivano riservarli ad altre formazioni ma non a loro, se non per esempio quella volta in cui i garibaldini avevano aiutato due soldati inglesi a oltrepassare il confine, mettendoli in salvo, e allora in quel caso bisognava ricambiare il favore. Probabilmente Nino era stato mandato alle Casermette di Condove, nella Valle. Lì, il giorno dell’armistizio, si era trovato a scegliere se stare con i tedeschi, tornare a casa o andare nelle montagne. Nei giorni successivi un soldato che cercava di scappare fu ucciso nella borgata Gagli mentre cercava di scappare. Da lì si era capito che non c’era troppo tempo per le riflessioni, e così Nino si decise a fare il salto verso i monti, al di là della linea di confine tracciata dal cartello in tedesco con su scritto “Acthung, Banditen!”, situato appena all’inizio della montagna fuori Condove. Molti soldati meridionali confluirono dunque, un po’ per obbligo, un po’ per scelta, un po’ per fortuna, un po’ perché già non tolleravano molto la divisa fascista, in una Divisione che copriva l’area di Maffiotto, Reno, Prato del Rio. All’inizio si trattava di una ventina di soldati. In seguito se ne aggiunseno altri, fino ad arrivare alla cifra di 72. A giugno del 1944 il distaccamento prese infine il nome di un partigiano piemontese caduto, Giovanni Novara.

All’inizio, Nino non capiva perché mai i meridionali dovessero stare in un distaccamento apposito. Era un modo per segregarli, per isolarli dal resto dei partigiani? E perché? Lo chiese ad Antonio Decancubino, il suo comandante e al commissario di guerra Oscar. Gli fu risposto che il motivo era che i meridionali parlavano una lingua diversa dagli altri, per cui nelle azioni di guerra era facile confondersi oppure non capirsi, e questo poteva avere conseguenze letali. Per cui, si era pensato che un battaglione formato da soli meridionali potesse svolgere in maniera più agevole le proprie operazioni. Nino sentiva che questa non era la verità. Tra i partigiani c’erano georgiani e ucraini che erano stati prigionieri tedeschi ed erano riusciti a scappare, eppure erano stati integrati nelle altre formazioni. La verità era che molta gente del posto già guardava con diffidenza i partigiani, figuriamoci i partigiani meridionali: lingua, aspetto, dicerìe, ignoranza. Modi di pensare che erano più duri a morire del più devoto tra i soldati tedeschi. La stessa paura del diverso o senso di superiorità che a Nino avevano insegnato a sentire nei confronti degli abissini o degli ebrei. Né più e né meno. E poi era anche vero che anche tra partigiani c’erano i clan: i torinesi e gli operai per esempio, o quello dei valligiani. Più si scavava a fondo, e più divisioni c’erano. L’unità è un’illusione ottica di chi guarda le cose da lontano. Questa fu una delle prime lezioni che Nino imparò da partigiano.

La cosa comunque non gli andò male: il suo comandante, Antonio, era di Motta San Giovanni. Un altro compagno era di Pellegrina di Bagnara. C’era un altro ragazzo di nome Giacomo Scaramozzino che veniva da Chorio di San Lorenzo, come un altro Scaramozzino, Domenico, che più avanti diverrà comandante del Battaglione; un altro, Nino Romeo, era di Condofuri. Per Nino erano “reggini”, e benché fossero paesi non troppo lontani dai suoi, per lui evocavano distanze incredibili e luoghi inaccessibili, e lo stesso era per i suoi compagni quando sentivano nominare il suo paese.

La notte tra il 2 e il 3 settembre del ’43, in Calabria sbarcava l’8ª Armata britannica portando la varietà delle lingue e dei costumi dell’Impero: australiani, sudafricani, neozelandesi, indiani col turbante che, proprio dalle parti del Paese di Nino Romeo, si accamparono requisendo tutte le capre che avevano trovato e banchettando per giorni, visto che le vacche non potevano mangiarle. Probabilmente anche i genitori di Nino avrebbero sentito diffidenza per quei soldati dai volti così diversi. E poi canadesi della Iª Divisione con i loro cori e le loro divise color kaki, mentre gli americani erano presenti quasi solo in cielo. Erano altre forme di occupazione, non per questo meno mortali ma certo molto più limitate: a Delianuova i canadesi ci arrivarono in bicicletta perché era l’unico modo per percorrere quelle strade minate dal nemico in fuga.

I partigiani in Valle e nelle montagne invece, scottavano. I nazifascisti avrebbero potuto accanirsi contro le famiglie che li aiutavano, per cui diffidenza già ce ne era. Nino se ne fece una ragione, come tutti gli altri. Così ciascuno si concentrò sulle azioni da fare, e lo fecero in maniera metodica, tanto da scendere a Valle per mesi, quasi ogni sera, per fare azioni di sabotaggio: il 22 giugno del 1944 la Novara attacca la caserma di Bussoleno, dove si trovavano 138 nazifascisti. Il 2 luglio una Brigata vicina, la 42ª , viene fatta oggetto di un rastrellamento per mano tedesca sul colle del Lys. Muoiono, seviziati, 26 partigiani, tutti inesperti della zona e disarmati. Il 12 luglio i meridionali attaccano un treno, nell’agosto minano pali elettrici causando l’interruzione della linea ferroviaria. A dicembre del ’44 a Prato del Rio fanno dieci morti tra i nemici. Il 10 gennaio muoiono Giacomo e Nino Romeo, dopo che a Maffiotto si scontrano con una pattuglia tedesca. Più avanti la Divisione perderà anche Oscar, il commissario politico, che si toglierà la vita per non essere preso dopo che era stato inseguito una volta sceso al Piano per prendere viveri. Giuseppe Lumia, un partigiano siciliano che era con lui, verrà fatto prigioniero e fucilato. Nino fece parte di molte di queste azioni, o ne era a conoscenza. Nell’estate del 1944 guardò ai suoi vent’anni dai monti che circondavano la Valle, forse già con il tarlo di qualche soldato ucciso che iniziava a erodere la sua coscienza e che lo spingeva a stringere più forte quella immaginetta della Madonna della Montagna che ancora portava con sé; forse festeggiò insieme a qualche compagno del Distaccamento bevendo anche solo un goccio di vino che in qualche modo era riuscito a procurarsi; forse nemmeno si ricordò dei suoi vent’anni, se non per un solo momento, magari accennando a sé stesso che uno di quei giorni doveva essere il suo compleanno. Forse ha pensato a dove si trovava l’anno prima e a dove sarebbe stato tra un anno. O forse no, quei giorni passarono senza nessuno di questi pensieri. Quello che la storia, i diari, i libri e le carte ci hanno restituito, come risacca di una marea ben più ampia che non possiamo fare altro che ipotizzare e plausibilmente immaginare, è che il ragazzo, a seguito di una ferita riportata sul campo di battaglia, fu promosso vicecomandante. Quella scelta presa all’indomani dell’8 settembre, che forse poteva essere dovuta a idealismo, convenienza e necessità, adesso diventava invece una scelta politica precisa, eticamente orientata e consapevole: liberare l’Italia dai nazifascisti attraverso una resistenza militare organizzata.

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