StoriaNarrativa

1. Uno spillo nella pancia delle Marche

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Questa voce fa parte [part not set] di 3 nella serie Antonio Ceravolo

Badia Tedalda è un comune della provincia di Arezzo che si trova in quella parte della Toscana che si infila come uno spillo nella pancia delle Marche. La sua posizione è strategica perché è al crocevia tra queste ultime, l’Umbria e l’Emilia-Romagna. I tedeschi lo sapevano, per cui decisero di far passare proprio da lì un tratto della Linea Gotica.

Nel periodo in cui i tedeschi edificarono la Linea Gotica, molti civili furono rastrellati e detenuti in alcune case coloniche presenti in quella porzione di territorio. Si trattava soprattutto di uomini catturati nelle province di Pesaro, Perugia e Arezzo e le loro braccia servivano per costruire quell’ultimo baluardo difensivo che i nazifascisti si illudevano di conservare prima che gli alleati dilagassero lungo tutto il piano Padano. L’organizzazione che si occupava di tracciare quell’incisione nel ventre italiano si chiamava Todt, dal nome del Ministro per gli armamenti che la ideò qualche anno prima. Accanto agli uomini della Todt, ad aiutarli c’erano gli uomini della Repubblica sociale italiana. Lungo tutta la Linea, le attività partigiane era molto frequenti, articolate e organizzate.

Come in molte altre parti d’Italia, i nazifascisti nella provincia di Arezzo diedero selvaggiamente sfogo a quei mesi di inquietudine e terrore, circondati come erano da nemici che sbucavano da ogni parte, con alleati che oramai li avevano abbandonati e con nuovi nemici da combattere. Non si risparmiarono in rastrellamenti, incendi, uccisioni, violenze, eccidi, molti ai danni di civili innocenti. L’Aretino era diventato un teatro di efferatezze, una specie di exclave dove era consentito riprodurre una porzione di inferno. Narcotizzati da mesi di guerra, incattiviti, sadicamente devoti alla strategia della ritirata combattuta, in modo da infliggere agli alleati il maggior numero di danni senza esporsi in combattimenti aperti, gli ufficiali tedeschi si muovevano apparentemente con algida disciplina e con profonda, codificata ferocia. Eppure non capivano che l’Italia non è fatta come la Russia. Non c’erano enormi steppe disabitate da disseminare di mine. Quell’area, perimetrata dall’Appennino è un teatro ideale per la guerriglia, luoghi in cui vince colui che quei posti li conosce meglio e non colui che è più armato. A poco serviva impossessarsi delle altitudini per controllare il nemico: gli Appennini non erano le Alpi. A poco serviva disseminare di casematte le coste che facevano da contorno a quelle valli e a quei tornanti: i passaggi dei guerriglieri non erano le strade. A poco servivano i carri pesanti lungo quei percorsi: erano solo esche per imboscate. La guerra in montagna la vince chi ci abita. Lo sapevano i latitanti aspromontani, i briganti romagnoli, i pastori della Barbagia, gli occitani, i profughi arbëreshë, i transumanti abruzzesi, gli eremiti eretici di cui le vette della Penisola pullularono nei secoli passati. Adesso lo stavano imparando anche gli ufficiali tedeschi.

Gli alleati, britannici figli dell’Impero soprattutto, avevano liberato Arezzo il 19 luglio del 1944 e poi si erano attestati tra Anghiari e Sansepolcro limitandosi a tirare di artiglieria contro le postazioni nemiche laggiù negli Appennini. La loro idea era quella di sfondare la linea Gotica da due punti: l’VIIIª Armata britannica avrebbe dovuto penetrare dalla costa adriatica, mentre la Vª Armata statunitense dal Passo del Giogo a Scarperia, verso il Mugello. Le due armate si sarebbero dovute poi ricongiungere a Bologna. I piani però non andarono come previsto e gli scontri durarono più a lungo. Tuttavia, l’VIIIª Armata era riuscita a sfondare la Linea nel versante adriatico e ad avanzare verso Cesena e Forlì. I comandi tedeschi, reputando che ci fosse un alto rischio di venire chiusi in una sacca dalle forze che premevano dal Casentino e dall’Alto pesarese, decisero di ripiegare a nord di Cesena, a difesa della linea del Savio. Lo fecero a modo loro, attraverso una ritirata combattuta, e cioè minando strade, ponti, fabbricati, centri abitati, rastrellando dove possibile, consumando vendette, eccidi, rappresaglie. Il ripiegamento tedesco fu più violento della guerra stessa. Alla fine, gli ultimi guastatori della Wehrmacht lasciarono l’area alla fine del settembre del 1944, dopo averla disseminata di mine.

Nel mezzo di queste tattiche c’erano i civili. Non bastavano infatti i circa i 18 mila genieri dell’esercito e una brigata slovena di circa 2000 soldati a tracciare la Linea. Servivano ancora braccia, possibilmente forti e robuste. In Italia non mancavano, piena com’era di sfollati, imboscati, militari in rotta. E così in breve tempo, per tracciare la Linea nella sua interezza, furono reclutate forzatamente circa 50000 persone.

Nonostante tutti questi sforzi, i tedeschi non erano i russi, e non erano nemmeno gli anglo-americani. Dei primi, mancava loro la fredda pazienza e la silenziosa, ostinata determinazione nel raggiungere un obiettivo. Dei secondi, mancava loro l’ottimismo e la potenza tecnica. I tedeschi erano legati ancora a una modalità ottocentesca, prussiana se vogliamo, di concepire filosoficamente la guerra: il codice d’onore, la punizione, il sacrificio, l’eroismo, la devozione, la violenza, il compito da assolvere a tutti i costi. Non combattevano per la libertà, per l’indipendenza, per l’autonomia, per la conquista di un diritto. Erano oramai fuori tempo massimo, in un Ventesimo secolo che era arrivato già a metà e che da lì a un anno avrebbe accelerato il suo corso cancellando via con un colpo di spugna il potente secolo precedente. Ma ancora la Wehrmacht resisteva, ed era questa la loro Resistenza, quella nei confronti della Storia che inesorabilmente li stava obliando. Ma ancora non era detta l’ultima parola: nell’agosto del ’44, l’Ottocento era ancora conficcato come uno spillo nel ventre molle del Novecento. E faceva male, malissimo.

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