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2. Campi rossi e piste narrative

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Questa voce fa parte 2 di 3 nella serie L'epopea laica dei fratelli Cervi

Tre sono le riflessioni che volevo fare, tutte di ordine narratologico.

La prima riflessione è che non è facile imbattersi in una stessa storia che descrive lo stesso protagonista raccontato prima con gli occhi di suo padre e poi con gli occhi di suo figlio. Di solito, nella narrativa di tipo elogiativo più commerciale, c’è un figlio che ricorda il padre (quasi mai il contrario) o un innamorato che ricorda l’amato o l’amata e ne racconta le gesta.

La descrizione di un punto di vista su uno stesso personaggio inoltre oggi non è una pratica molto usata perché si preferisce procedere su una via considerata più accattivante, che è quella di narrare lo stesso episodio a partire da punti di vista diversi, in modo da inserire nel lettore il dubbio su quale interpretazione sia la più vera. L’esempio più importante è “Rashomon” di Kurosawa: un monaco, un boscaiolo e un passante parlano di un omicidio avvenuto tempo prima con cui tutti tre hanno in qualche modo avuto a che fare. Nel caso dei Cervi però gli accadimenti sono molto chiari e non vi sono dubbi da crime story da piazzare nella testa del lettore. Sono invece le emozioni a essere diverse e potenti, nel padre e nel figlio, che raccontano gli stessi accadimenti. Questa dialettica, che nel caso dei Cervi assume un ruolo ancora più interessante perché viaggia nel tempo in un fil rouge, è il caso di dirlo, che parte dal 1955 e arriva fino ai giorni nostri, riesce a essere ben viva e particolarmente sorprendente se si leggono uno dopo l’altro i due testi, quello di Alcide e quello di Adelmo.

Questi testi diventano quindi prismatici, cioè diventano capaci di restituire aspetti molteplici a fatti identici ma non solo sotto l’aspetto storico, che in questo caso è quanto di più chiaro e definitivo vi sia (i Cervi sono dei martiri, al di là di come li narriamo, e c’è poco da fare dietrologia spicciola) ma soprattutto sotto l’aspetto narrativo.

La seconda riflessione è di carattere mitologico. Se leggiamo il discorso commemorativo di Pietro Calamandrei, pubblicato nella più recente edizione del libro di Alcide Cervi, i sette fratelli vengono in parte assimilati ai grandi eroi della mitologia greca, ai sette fratelli di Andromaca o ai figli di Niobe. Sono delle suggestioni di grande potenza e valore, che tuttavia trascurano un elemento. I fratelli Cervi infatti non sono stati uccisi per tracotanza, come nel caso di Niobe, ma perché stavano difendendo qualcosa. Stavano difendendo un ideale simbolicamente racchiuso tra i confini dei Campi rossi, che è il nome che Alcide dà alla loro terra. Questo luogo, e l’abitazione che vi era connessa, è un importante elemento mitico all’interno della narrazione sui Cervi. Si tratta sia della terra e sia di quell’angolo di realtà nel quale questi ragazzi hanno cercato di fare splendere letteralmente il Sole dell’avvenire. I Campi rossi erano un luogo edenico, e quella casa in fiamme ricorda il villaggio difeso dai samurai di Kurosawa (sette, ironia della sorte) contro i predoni. Anche in quel film, a morire furono i samurai ma a sopravvivere furono i contadini. E non è questo forse il sacrificio che si chiede a ogni guerriero? Quello di perire contro dei soldati? Quello di essere fulminei e giovani, rapidi e definitivi?

Noi samurai siamo come il vento che passa veloce sulla terra, ma la terra rimane e appartiene ai contadini.

E vengo infine alla terza e conclusiva riflessione, che apro con una citazione di Adelmo tratta da “Io che conosco il tuo cuore”. A pag, 396, Adelmo scrive:

Per anni, si è cullato da solo il bambino.

Da solo si è cantato la ninnananna.

Sua madre doveva sfamare lui e sua sorella, che non avevano più un padre.

Il bambino è solo e triste.

Sta rannicchiato nel lettino, attento a non cadere fuori.

Perché fuori c’è un buco enorme, nero e vuoto, pronto a inghiottirlo.

Come una bestia feroce, quelle cose senza nome che escono dai boschi, di notte, per mangiare i bambini.

Come quella cosa di nome “museo” che si sta mangiando la casa dove abitano.

Vivere in una casa che diventa piano piano un “museo”.

Vivere in una casa da cui piano piano – gentilmente, ma non troppo – il mito ti sta cacciando via.

Ci vuole tempo per accettarlo.

Si tratta dello stesso vortice mitologico di cui si parlava prima, che è talmente ingombrante che sì, rischia di mandarti via dalla tua stessa casa. Io però credo che vi sia un modo per sfuggire dalla prigionia del mito, così sinceramente incastonata in queste parole. E il modo consiste nel farlo implodere in una miriade di schegge che portano con sé la potenza del mito iniziale ma che poi diventano elementi autonomi. Questo non potrà restituire un padre a un figlio, ma almeno potrà fare echeggiare di nuovo in quel museo quelle voci capaci di andare oltre il suono della voce del suo solo custode.

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