
Gruppi, divisioni, battaglioni dicevo, tutti schierati a difendere confini geografici che geografici non erano. I soldati italiani erano in mezzo ai due mondi, tra risme di cartine geografiche impilate e carri motorizzati indaffarati ad andare su e giù, su e giù per le linee. Il generale Gariboldi, che ironia della sorte aveva un cognome che sembrava una storpiatura uscita dalla bocca di Stanlio o Ollio – ed è questo l’elemento che, inutilmente, speriamo ci redima: la pacca sulla spalla, la risata accondiscendente, la battuta da pane e salame – il generale Gariboldi fu chiaro nel relazionare nel seguente modo: Armatura ed equipaggiamento deficiente quantitativamente e qualitativamente Munizionamento scarsissimo, insufficiente anche all’addestramento. Adesso sappiamo che in provincia di Gorizia allora c’erano circa 54.000 soldati con 77.850 fucili, 3334 mitragliatori, 280 pezzi di artiglieria, 734 mortai e poi autoblinde, autocarri e carri armati leggeri in numero indefinito. Poca roba se si immagina la vastità del territorio e l’ampiezza delle linee di confine. Poca roba, se si immagina che dall’altra parte del confine c’erano forze partigiane già ben organizzate e soldati tedeschi che stavano iniziando a valutare l’ipotesi di sfondare la linea di confine e prendere possesso dell’area. A presidiare le fortificazioni di confine italiane c’erano reparti sparsi, tra i quali il 57° Gruppo appiedato Lancieri “Aosta”. Loro malgrado, avevano scorrazzato su e giù per l’Impero negli anni precedenti. A differenza di altri reparti però, molti di quei soldati avevano l’esperienza necessaria per essere consapevoli di quanto fosse debole il nostro esercito, quanto fossero inetti i comandanti, quanto fossero schiaccianti le forze nemiche. In altre parole, avevano la misura di che cosa volesse dire essere un soldato italiano quell’8 settembre del 1943. Certo, ancora non potevano sapere che il loro generale al Governo, Pietro Badoglio, era un criminale di guerra, perché ancora in Etiopia si stavano facendo le considerazioni del caso e denunce e commissioni di inchiesta sarebbero arrivate dopo. O forse intuivano che qualcosa sarebbe uscita fuori prima o poi, perché alcune di quelle atrocità le avevano commesse proprio loro. Avevano insomma tutte le informazioni necessarie per iniziare a farsi un’idea dell’onda d’urto che stava per investire l’Italia in quei giorni, sotto tutti gli aspetti.
Tra i Lancieri c’era un soldato di nome Giuseppe Scutellà. Da una settimana era stato nominato Sergente dopo gli ultimi due anni trascorsi come Caporalmaggiore. Giuseppe era un soldato scelto di 28 anni che già dal 1940 aveva risposto alla chiamata lasciando la moglie Grazia, il suo lavoro di mulattiere a Delianuova e passando dall’Aspromonte ai valichi dell’Italia orientale. Era un soldato della prima ora, un nonno, nel gergo cameratesco. Insieme al suo gruppo era stato mandato dalle parti di Piedicolle per presidiare delle fortificazioni. Da quando l’Italia aveva invaso la Jugoslavia, la linea di confine della provincia goriziana era diventata strategica perché da lì partivano le incursioni contro le milizie partigiane jugoslave ed era lì che avevano base e ristori quei reparti che presidiavano la provincia di Lubiana. Insieme ai Lancieri c’erano anche gli alpini del Battaglione “Vicenza”, schierato nel tratto fino a Tolmino.
Si trattava dunque di presidiare l’area e fornire supporto logistico, attività che per Giuseppe erano normale amministrazione. Tutto questo però cambiò repentinamente quel giorno in cui alcuni carabinieri del comando divisionale informarono i propri superiori che la gente a Gorizia era particolarmente euforica. Si vedevano scene di militari in libera uscita che festeggiavano insieme ai civili delle notizie che sembravano provenire da radio straniere e che parlavano di resa dell’Italia agli Alleati. Nel contempo arrivò la notizia di un proclama alla radio di Badoglio che in effetti sembrava confermare il fatto che qualcosa stava cambiando, che ci eravamo arresi agli angloamericani e apparentemente poco altro. La prima decisione che il Comando prese, in assenza di ordini dall’alto, fu di costituire pattuglie di ufficiali che andassero a riprendere tutti i soldati in libera uscita e a presidiare i punti più importanti della città. Poi fu imposto un coprifuoco fino alle 5.30 del mattino successivo. Mentre a Gorizia avveniva tutto questo e l’8ª Armata cominciava a riconfigurarsi, alla porta della Guardia di Frontiera difesa da Giuseppe e dai Lancieri qualcuno bussò alla porta. Era un Ufficiale tedesco di un reparto motocorazzato della 71ª Divisione che chiese gentilmente a nome della sua Divisione il via libera per poter entrare in Italia. Dall’altra parte risposero che cosa sarebbe accaduto se non avessero concesso il lasciapassare e l’Ufficiale tedesco rispose che in tal caso sarebbe stato aperto il fuoco di artiglieria contro la postazione italiana. Questi ultimi ribatterono che era tutto molto chiaro ma che avrebbero voluto un po’ di tempo per capire che cosa rispondere. L’Ufficiale concesse loro un po’ di tempo, raggiuse la delegazione che lo stava aspettando, spense la moto che aveva lasciato accesa e comunicò ai superiori quanto stabilito, poi tornò a sedersi sulla motocicletta e si accese una sigaretta. Nel frattempo giocavano a indovinare che cosa avrebbero risposto gli italiani. L’opinione comune era che si sarebbero arresi. Qualcuno disse che da lì a poco si sarebbero sentiti i rumori dei mezzi che smammavano. Altri suggerivano di fare attenzione perché era oramai evidente che degli italiani non ci si poteva fidare.