NarrativaStoria

2. Held(entod)

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Questa voce fa parte 2 di 3 nella serie Antonio Ceravolo

Faceva male lungo quel tratto a ridosso della Linea Gotica che corrispondeva dunque al comune di Badia Tedalda e ad alcune sue frazioni, una delle quali si chiamava Montefortino. Qui, presso le case dei coloni Ferri-Marini e Amantini, erano alloggiati lavoratori italiani rastrellati dalle province e dalle zone vicine. Ogni tanto, di notte, arrivavano dei mezzi con altri uomini che ingrossavano le fila di quelli già presenti. La notte del 17 agosto del 1944 fu una di queste: arrivarono i mezzi con dentro trentacinque lavoratori presi a forza nelle zone limitrofe. Quella notte però si creò confusione al momento dell’ingresso dei nuovi arrivati: un guasto a un mezzo, una frenata brusca, un contrattempo dovuto al buio. Accadde insomma qualcosa che allertò un gruppetto di sei prigionieri, tutti provenienti da San Giustino e da Sansepolcro, che decisero di approfittare di quel momento di confusione per darsela a gambe. Non era la prima volta che si verificavano fughe. Per la precisione, da quando i tedeschi avevano occupato quel luogo, era la terza volta che qualcuno fuggiva e in totale le persone scappate erano arrivate a diciassette. Il militare che sovraintendeva alle operazioni, il sergente delle S.S. Heinz Held, aveva la sua reputazione da difendere. Tanto più che già da tempo aveva detto ai suoi sottoposti che la prima cosa che avrebbero dovuto comunicare a tutti i nuovi arrivati era che, qualora qualcuno avesse tentato la fuga, tre prigionieri innocenti sarebbero stati sorteggiati e uccisi. Visto il numero di persone che erano scappate, Heinz Held fece un rapido calcolo e reputò che se avesse dovuto tenere fede a quel principio, avrebbe dovuto uccidere quasi tutti i prigionieri del campo. Per questo motivo, fino ad allora, si era limitato a qualche sfuriata in modo da far passare un brutto quarto d’ora agli altri. Però, adesso, cominciava a diffondersi sempre più tra i suoi la voce che non fosse capace di tenere in pugno il comando. E questo non andava bene.

Ma seguiamo la cronaca temporale di quanto stava accadendo: la mattina dopo, come ogni giorno, c’era l’adunata alle sei in punto. Renato Mariani, un prigioniero di Firenze che era incaricato del disbrigo delle poche questioni burocratiche e organizzative all’interno del campo, venne a sapere della fuga dei sei prigionieri e decise di anticiparlo al sergente in modo che non si ritrovasse a doverglielo comunicare davanti agli altri, cosa che avrebbe potuto esporlo a qualche pericolosa lavata di capo. Così, alle cinque e mezza, decise di andare da Held a riferirgli della fuga dei sei prima che avvenisse l’adunata. Quello che fece gelare il sangue a Renato fu che il sergente si limitò ad ascoltarlo senza arrabbiarsi. Non urlò, non minacciò, non sbattè i pugni sul tavolo come aveva fatto altre volte. Soltanto, disse a Renato di radunare tutti i prigionieri per le sei prima di farli partire, cosa che Renato fece.

Alle sei in punto, Held si posizionò nel cortile e ascoltò l’appello. Dopodiché, Renato gli confermò che, in effetti, mancavano sei persone. A questo punto Held iniziò a passeggiare lentamente lungo il cortile, poi si schiarì teatralmente la voce e, rivolgendosi ai suoi soldati, disse loro che avrebbero dovuto sparare al prigioniero che lui avrebbe scelto. Ci fu qualche secondo di silenzio, dopo il quale si alzò una voce proveniente dal gruppo di soldati schierati. Era un sottoposto di Held, che chiese rispettosamente al suo capo di fare un atto di clemenza, che in fondo quei prigionieri presenti non erano scappati e che ucciderne uno poteva sembrare un atto di punizione nei confronti di coloro che invece avevano rispettato gli ordini. Held ascoltò e, dopo essersi preso qualche secondo di pausa, rimbrottò il suo soldato invitandolo sbrigativamente a non fare storie e a eseguire l’ordine. Poi passò in rassegna tutti i presenti, fino a che il suo sguardo non si posò su quello di Antonio Ceravolo. Antonio era un ragazzo di diciotto anni di Rossano Calabro. Heinz Held, che all’epoca era trentaquattrenne, fissò Antonio. Poi gli disse “du du”, invitandolo a venire avanti.

A parte Renato, che parlava tedesco, gli altri erano convinti che il sergente volesse al massimo picchiarlo. Antonio fece in tempo a rivolgersi a Renato:

“Renato, Renato, no, no, digli…” ma non finì la frase che gli arrivò un colpo alla schiena col calcio del moschetto che lo spinse vero il muro. Il ragazzo assorbì la spinta e mentre si stava per rimettere in equilibrio ricevette un primo sparo che lo stese a terra. Poi Heinz gli sparò di nuovo all’addome, e Antonio stavolta si posizionò su un fianco, in posizione fetale. Qui il ragazzo pronunciò l’ultima parola, che secondo alcuni fu “pazzo”, secondo altri fu “basta”. A questo punto Heinz gli sparò il terzo colpo, al collo, che uccise il ragazzo.

Renato aveva provato ad avvicinarsi al sergente dopo che Antonio si era rivolto a lui ma non fece in tempo a dire nulla. Il sergente aveva sparato a bruciapelo perché sapeva che, se si fosse abbandonato alle chiacchiere, si sarebbe lasciato convincere.

Il cadavere fu lasciato a terra per circa mezz’ora, dopodiché vi fu adagiata sopra una coperta militare. Passarono circa due ore, dopo le quali Heinz fece chiamare Renato affinché constatasse la morte di Antonio a nome dei lavoratori italiani. Renato disse al sergente che sarebbe stato necessario far passare altro tempo prima di confermare il decesso ma il Heinz non volle sentire ragioni e si limitò a fargli vedere quanto profonde fossero le ferite nel cadavere del ragazzo. Renato a quel punto ne approfittò per chiedere al sergente se poteva sottrarre dal cadavere due anelli e un portafoglio ma quest’ultimo, seccato, gli negò il permesso. Quindi fece spostare la salma su una madia più corta rispetto all’altezza di Antonio, ma secondo Renato questo costringeva il cadavere a stare con le ginocchia piegate. Infine, fece realizzare una fessura dalla quale poter vedere la salma. A quel punto Heinz Held si affrettò a completare alcune pratiche burocratiche che evidentemente riteneva indispensabili, come per esempio far firmare a Renato la dichiarazione del decesso di Antonio. Quest’ultimo ci tenne a specificare nella dichiarazione la sua qualifica, e cioè “lavoratore italiano, laureato e interprete”. Firmato il foglio, Renato Mariani fu congedato.

Il Sergente si fece in seguito dare la carta di identità di Antonio, che gli era stata in precedenza sequestrata in quanto era prigioniero, e la allegò a una breve lettera che inviò al comando del Battaglione di riferimento. Nel biglietto, Heinz scrisse: “La notte sul 17-1944 sono fuggiti sei lavoratori italiani dal gruppo da me comandato. Il fatto si verifica per la terza volta ed il numero di lavoratori fuggiti raggiunge con questi il numero di 17. Secondo gli ordini ricevuti ho ucciso con tre scariche di moschetto il lavoratore italiano Antonio Ceravolo di cui all’acclusa carta di identità”.

Nel frattempo, a circa cento metri dalla casa di Ferri-Marini, Renato, insieme ad altri quattro, cinque prigionieri si mise a scavare la fossa per Antonio. La giudicò profonda di almeno un metro. Poi lo comunicò al sergente, che con un’aria di solennità gli chiese di convocare tutti i prigionieri del campo per presenziare alla sepoltura. Renato obbedì all’ordine. Prima che la bara fosse calata, Heinz pronunciò alcune parole, dicendo a Renato che, se voleva, poteva ripeterle agli altri. Poi aggiunse che a lui non importava nulla in fondo se le sue parole fossero tradotte o meno. Dopodiché se ne andò lasciando agli altri la conduzione della sepoltura. Renato decise di tradurre comunque ai presenti le parole del sergente, che in sostanza confermava quanto andava dicendo da tempo e cioè che, se avesse dovuto eseguire alla lettera gli ordini, avrebbe dovuto uccidere oltre 50 lavoratori. Poi diede avvio alla sepoltura. Qualcuno balbettò un Requiem senza portarlo a termine, perché non sapeva come finiva o perché lo smarrimento e la paura erano tali che nessuno aveva fiato in gola o voglia di cantare o pregare. Altri piansero, ma in silenzio. A circa tre chilometri da quel posto c’era un cimitero più adatto per la sepoltura, quello di Sant’Andrea forse, ma i tedeschi non concessero il permesso di spostare la salma. Sopra la fossa non fu posta né croce, né nome, né fiore.

Dopo l’accaduto, tutti nel campo erano convinti che il sergente sarebbe stato sostituito ma col passare del tempo questa speranza svanì. Un giorno, Renato fu convocato nell’ufficio del sergente. Heinz era particolarmente euforico e affabile e volle per forza mostrare delle sue foto a Renato. Quest’ultimo acconsentì, e si trovò subito davanti alcune foto del sergente in divisa delle SS durante una adunata militare a Francoforte, sua città natale. Poi gli confidò che nella sua vita da civile svolgeva il lavoro di letturista di contatori ed esattore per la società del gas, dell’acqua e dell’energia.

In seguito, l’argomento della morte di Antonio fu toccato solo una volta. In un’occasione infatti, Renato e Heinz dovettero elencare per questioni di ufficio i nomi delle persone che avevano frequentato il campo. Giunti al nome di Antonio, Renato disse “Gestorben”, cioè deceduto. Held lo guardò e gli disse che Ceravolo aveva fatto una “Heldentod”, cioè una morte da eroi, poiché era stato sacrificato per la vita dei suoi connazionali.

L’episodio della morte di Antonio fu evidenziato poi in un’altra occasione. Il pomeriggio del 27 agosto dello stesso anno infatti, durante uno smistamento di lavoratori all’interno del campo, era stato individuato uno dei diciassette prigionieri fuggiti tempo prima. Si trattava di un uomo scappato con la prima fuga. Heldentod lo riconobbe. Avvisò Renato di prendere il prigioniero e di andare tutti e tre davanti al luogo dove era stato sepolto Antonio. Qui, fece piegare il prigioniero a novanta gradi e iniziò a bastonarlo sulle natiche. Poi lo fece inginocchiare intimandogli di pregare alcuni minuti per il defunto. Quindi lo fece alzare e cominciò a urlargli contro che avrebbe dovuto riferire a tutti i suoi compagni quanto era accaduto e la tragedia che, per colpa sua e degli altri che avevano tentato la fuga, era avvenuta dieci giorni prima. Infine, lo fece riaccompagnare a lavoro, e la vita nel campo continuò nelle settimane seguenti come se nulla fosse mai accaduto.

L’episodio è stato tramandato di generazione in generazione tra gli abitanti del posto, come una terribile leggenda. Le risacche della storia ci restituiscono un atto di morte depositato presso gli archivi di Badia Tedalda, in cui si asserisce che la fucilazione avvenne presso la frazione di Sant’Andrea. Di Antonio sappiamo che era uno studente, che risiedeva a Crotone ed era celibe. Suo padre si chiamava Domenico e la mamma Clorinda Irma Romeo. Non sono chiari i motivi che hanno portato Antonio in quella parte di Italia all’epoca così tragicamente divisa. Secondo alcune testimonianze, il luogo dove è sepolto Antonio è nei pressi delle Torre di Montefortino, che adesso non c’è più; era lì infatti che la maestra delle elementari portava i bambini affinché pregassero per l’anima di quel ragazzo. Ce lo riferisce un anziano signore che all’epoca era uno di quei bambini.

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