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3. Sventurata la terra che ha bisogno di principi azzurri

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Questa voce fa parte [part not set] di 8 nella serie Sull'Attesa

In effetti, c’è un punto in cui il tempo della misurazione si scontra con quello spirituale, nel percorso evolutivo umano. Quindi si ha modo di fotografare il momento in cui l’attesa comincia a diventare un’altra cosa rispetto al percorso tracciato in precedenza. L’attesa si trasforma quindi culturalmente, a partire dalla nascita dei grandi poemi, greci e arabi e ha una importante variante con lo sviluppo dello spazio religioso cattolico e poi dantesco del Purgatorio, luogo in cui l’attesa è sublimata in una definitiva colpa – cosa già esistente in molte versioni sia in Grecia e sia in diverse altre culture. E in più, l’attesa comincia a femminilizzarsi ben oltre lo spazio della gravidanza al quale si è fatto riferimento in precedenza: le donne diventano in sostanza spettatrici, se non opponenti, delle vite altrui, elemento questo che ricorre ancora oggi nella restituzione filmica e seriale più lisa e deteriore delle fiction della tv generalista. L’eroe o l’artista sono sempre continuamente frenati nei loro intenti da una moglie o da una compagna che sta a casa e li attende, apprensiva, talvolta timidamente fiduciosa, altre volte preoccupata e ostile al percorso del compagno. Nasce la figura di una donna che, nonostante tutto, è condannata all’attesa e in qualche modo se ne vendica. Ci sono innumerevoli esempi nei vari biopic su grandi personaggi del passato, in cui la donna è rappresentata secondo il modello di Penelope. Ecco, per tornare ai nostri poemi, la donna-Penelope realizza uno dei più importanti archetipi dell’attesa: decide di tessere il sudario di Laerte e di disfarlo ogni notte per non dover scegliere tra i pretendenti ai quali in precedenza aveva assicurato che si sarebbe concessa solo non appena terminato il sudario. Senza pensare poi all’altro archetipo di donna-in-attesa, e cioè colei che attende il Principe azzurro. Anche in questo caso la posizione è sconvenientemente di debolezza, poiché impone un giudizio passivo sugli accadimenti del mondo, che sono subiti. Cioè la donna è felice se e solo se c’è un uomo che la sceglie, cioè se c’è un uomo che “la porta via” da una condizione che si presume di disagio, che la redime dunque. Sventurata quindi la donna che ha bisogno di principi azzurri.

L’altro archetipo è quello di Shahrazād. Sebbene le “Mille e una notte” abbiano una tradizione diversa dall’Odissea, e sebbene siano stati testi prodotti in epoca diversa, presentano sempre questa dinamica dello stratagemma escogitato per prolungare l’attesa. Nel caso della principessa orientale in realtà il suo stratagemma era finalizzato a salvarsi la vita, mentre nel caso di Penelope era dovuto al rifiuto di tradire Ulisse.

Nelle “Mille e una notte”, il re Shahriyār, dopo aver ucciso la moglie infedele, sposa ogni sera una donna diversa che la mattina seguente verrà uccisa. La figlia del vizir, Shahrazād, escogita un piano: intrattenere il re ogni notte con un nuovo racconto. Dopo mille e una notte il re sposerà l’astuta principessa, che diverrà regina.

In questo caso si configura un’altra postura dell’attesa, che è il prender tempo, lontanissimo dalla figura dell’attesa come noia. E infatti i grandi professionisti dell’attesa sono proprio coloro che la trasformano abilmente in un guadagnar tempo, tutto il contrario della noia, che invece prolifica sulle emorragie di tempo. Penelope, Shahrazād, ci offrono dunque due esempi di vigile attesa (per usare un termine a noi tutti troppo noto per non essere enunciato), che purtroppo non hanno però generato delle restituzioni a livello di cultura di massa alla loro altezza.

In ogni caso, le due donne sanno che il controllo del tempo è una forma di potere. Ed è questa forma di potere, che si esercita attraverso l’attesa, che proveremo a scandagliare nell’articolo successivo.

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