
- 1. Un calabrese
- 2. Un ragazzo
- 3. Un partigiano
Il 10 aprile del 1945 i partigiani avrebbero dovuto affiancarsi a uno sciopero di oltre 2000 operai alle Officine Moncenisio. Forse ai nemici arrivò qualche soffiata, tant’è che quel giorno i partigiani anziché andare con gli operai dovettero rimanere sulle montagne e cercare di frenare l’avanzata di diverse centinaia di tedeschi che dalla valle tentarono di stanarli, fino al punto da farsi scudo con delle donne del posto. Per fortuna, quell’assalto non ebbe l’effetto sperato. Tra i partigiani ci furono tre feriti, mentre non è dato sapere se ci furono perdite da parte tedesca. Il 18 aprile seguì un rastrellamento leggero, più simile a un’esplorazione, e furono fatti alcuni prigionieri tra i partigiani.
Il 19 aprile, verso le dieci di mattina, si presentò al posto di comando della Brigata Pietro Bassignana, un informatore che lavorava come interprete di lingua tedesca alle Officine Moncenisio, giù a Valle, e che pertanto conosceva molte fonti di prima mano. Pietro, non senza una forte concitazione, diceva che era imminente un’operazione militare che avrebbe coinvolto circa diecimila soldati tedeschi e della Repubblica Sociale con l’obiettivo di espugnare definitivamente le formazioni partigiane da Caprie a Borgone. La notizia non fu subito creduta, per due motivi. Il primo era che frequentemente venivano fatte trapelare notizie di attacchi falsi, proprio per stanare il nemico. Il secondo era che non si erano mai visti così tanti soldati nemici in zona per combattere i partigiani. Era rimasta sempre una guerra cruenta ma quantitativamente esigua, combattuta da decine, al massimo centinaia di soldati da entrambe le parti. C’era poi un terzo motivo, forse a conoscenza solo dei comandanti: gli alleati avevano già sfondato il fronte tedesco nell’Appennino tosco-emiliano e a giorni sarebbero arrivati nei pressi di Torino. Si sapeva che a breve ci sarebbe stata la chiamata all’insurrezione generale giù in città. Sarebbe stato un atto incomprensibile per i nemici lasciarsi andare a operazioni militari in grande stile anziché provvedere a ritirarsi o ad arrendersi.
Negro, il comandante della 114ª, mandò tre staffette dagli altri tre reparti vicini con un messaggio che diceva, in sostanza: “ammesso che l’informazione sia vera, che cosa occorrerebbe fare? Sbandarsi o resistere? Noi resistiamo”. Nel frattempo fu riunito il comando per discutere ancora sul da farsi. L’idea era che, in caso di ritiro, i nemici, in mancanza di partigiani da combattere, avrebbero potuto organizzare delle rappresaglie contro i civili. In più, era forte la diffidenza per la veridicità del messaggio di Bassignana sul numero di soldati impiegati e, in terzo luogo, era ancora alto l’umore per la vittoriosa battaglia del 10 aprile. In sostanza, furono questi i tre motivi che spinsero il comando a decidere di rimanere anche dopo che, verso l’una di notte del 20, arrivò il messaggio da parte di uno dei tre reparti avvisati la mattina stessa che recitava: “Caro Negro, ti comunico che sei scoperto alla tua sinistra, perché io ho portato via la brigata per evitare un attacco tedesco sicuro. Firmato Alessio”. Quest’ultimo era il comandante della 113ª Brigata. Degli altri due reparti non arrivò mai risposta. La notizia dell’abbandono della 113ª però non fece desistere il comando della 114ª, all’interno del quale a quel punto è plausibile pensare che ci fosse anche Nino, nel frattempo promosso a vicecomandante: la decisione finale fu quella di rimanere e resistere. Nessuno al momento sapeva che anche gli altri due reparti si erano nel frattempo ritirati. La 114ª era rimasta da sola, e adesso non c’erano più meridionali e settentrionali. Adesso c’erano partigiani e nazifascisti.
Nelle stesse ore, a Prato del Rio i paesani iniziarono a rintanarsi in una vecchia miniera di calce. Altri liberarono le mucche e occuparono le stalle al posto loro, per offrire un rifugio in qualche modo più comodo ai bambini.
Alle tre di notte del 20 aprile arrivano i primi tre colpi di moschetto che annunciano tedeschi in vista. Questi ultimi decidono di far notare la loro presenza lanciando una saetta gialloverde che si perde nel bosco. Ai partigiani viene un groppo in gola: Bassignana sapeva quello che diceva. Col passare delle ore però, la situazione comincia a complicarsi sempre di più perché le varie staffette e altri uomini sbandati da altre compagnie riferiscono tutti lo stesso messaggio: non c’è solo un reparto tedesco che proviene dalla Valle, ma ce ne è almeno un altro ad affiancare il primo e, soprattutto, sembra che ci siano anche gli Alpini della Monterosa a scendere da nord. Con loro era difficile spuntarla. Erano addestrati e conoscevano la montagna e le sue leggi come se fossero una cosa sola. Voleva dire che Bassignana aveva ancora più ragione di prima. E soprattutto voleva dire che anche i compagni che avrebbero dovuto coprire quel fianco di montagna si erano ritirati. Adesso i garibaldini erano quindi accerchiati e con un nemico che li superava in forza e quantità. Alle sei del mattino, improvvisamente, due garibaldini lasciano le postazioni e si incamminano verso l’ignoto. Nessuno intima loro di fermarsi. Nessuno sanziona quella palese insubordinazione. Brutto segno, la brigata è ormai sbandata. A partire dalle otto del mattino, nella conca di Vaccherezza comincia a imporsi gelida la eco del mitragliatore tedesco Maschinengewehr 08, altrimenti noto come “Spandau” o “sega di Hitler” per la sua efficacia nel macellare la carne degli avversari. I suoi colpi ad altissima frequenza provocavano nei soldati colpiti un elettrico spasmo continuo che nella fanteria inglese era conosciuto come “Spandau Ballet”: sarà il nome di un famoso gruppo inglese degli anni Ottanta.
Alle dieci cade il partigiano Ferruccio Cantore, colpito alla schiena. Il compagno che era con lui, vistosi perduto, si rintana in un anfratto con due bombe a mano strette nei pugni, pronto a farsi saltare in aria se fosse stato scoperto. Uscirà da lì soltanto verso sera, salvo.
E Nino, dov’è? Già dalle sette, i meridionali, stavolta capitanati da un altro partigiano di nome Nino Laterza, si incamminano appresso a Negro e a Pino Cugno, un altro comandante. L’idea è quella di raggiungere la vetta più alta dell’area, la Punta Lunella, a 2772 m, in modo tale da rendersi più introvabili di un’aquila. È un azzardo, ma è l’unica via percorribile in quel tragico triangolo disegnato con vendicativa devozione dai nazifascisti. A un certo punto la squadra incontra Bill, un altro partigiano in fuga con i suoi. Lungo il cammino decidono i sentieri da percorrere fino a che non si dividono in tre gruppi. A Bill si uniscono i meridionali, e puntano verso la conca di Vaccherezza anziché seguire Negro. Dopo qualche centinaio di metri si trovano davanti uno sbarramento di fuoco proveniente da uomini vestiti di bianco: sono gli alpini della Monterosa con le loro tute da montagna. Scappano, ma nella direzione opposta spuntano le Spandau dei tedeschi. Il gruppo si sbanda, una pattuglia in cui c’era anche Nino scende lungo i margini di un Rio, il Balmosello. Quando cominciano a tirare il fiato, vengono allertati dalla presenza di ombre lontane in mezzo ai boschi. Sono gli Alpenjäger tedeschi che scivolano di albero in albero rabbiosi e controllati come i cani che portano al guinzaglio. Sono cacciatori di montagna, unità d’élite della Wermacht. Dal punto di vista militare sono parenti dei soldati tedeschi che massacrarono oltre cinquemila italiani a Cefalonia, circa un anno e mezzo prima. I partigiani fanno fuoco per disperazione. I tedeschi hanno tutto il tempo del mondo. Si mettono al riparo dai colpi. Poi si abbassano, prendono con calma la mira e fucilano uno a uno quella piccola pattuglia che stava costeggiando il Rio. Insieme a Nino muoiono un ragazzo di Pellegrina di Bagnara di nome Vincenzo Carbone, Antonio Lardini e Paolo Marquis. Quest’ultimo finirà inspiegabilmente sgozzato, da cadavere. Il comandante, Nino Laterza, alza le mani e si arrende, e viene fatto prigioniero. Per quanto feroce fu la sparatoria, i tedeschi pensarono che dei prigionieri avrebbero fatto comodo come merce di scambio una volta che avrebbero lasciato i confini italiani.
Un’altra pattuglia è sorpresa dalla Monterosa. Quattro partigiani sono uccisi, uno dei quali si toglie la vita una volta che si è visto ferito, e altri quattro sono fatti prigionieri. Tra questi, Antonio Decancubino.
E gli altri? Cugno e Negro si erano staccati poco prima. Quest’ultimo riuscì a salvarsi insieme ai suoi uomini perché sfuggì alla tenaglia per un anticipo di nemmeno un’ora rispetto alla morsa nemica. Cugno invece si riunì con un altro partigiano di nome Felice e fu sorpreso dal fuoco nemico. Felice si buttò dentro un fosso ma fu subito raggiunto. Anche lui si diede la morte pur di non finire in mano nemica. Cugno riuscì in qualche modo a scappare. Rimaneva ancora in giro la banda di Bill. Anche loro furono stanati e massacrati. Ad alcuni fu intimato di uscire dal fosso in cui si erano riparati con la promessa di non ucciderli, tranne poi colpirli brutalmente con una sventagliata di mitra. A un altro partigiano, già con gli occhi chiusi in ginocchio e con la pistola puntata alla tempia, fu risparmiata all’ultimo la vita. A Bill fu dato il colpo di grazia quando, oramai morente, aveva implorato per pietà che qualcuno lo finisse. In tutto furono uccisi sedici partigiani e otto furono fatti prigionieri. Questi ultimi in seguito si salvarono, scambiati con altri soldati tedeschi dalle parti di Rivoli.
In totale, le forze italo-tedesche impegnate nel rastrellamento furono quantificate in oltre 5000 uomini.
Tra il 26 e il 28 aprile Torino è definitivamente liberata. Rimarranno in città ancora numerosi cecchini, che provocheranno un numero considerevole di morti, alcuni dei quali sono bambini o ragazzini colpiti sin dentro le mura domestiche. Il 2 maggio i tedeschi si arrendono. Il 9 maggio i partigiani consegnano le armi nelle caserme. Da quel momento in poi sarebbero iniziate altre guerre, certamente meno efferate ma non per questo meno logoranti. Guerre lunari, invisibili: perché lo sguardo lontano percepisce unito tutto ciò che invece è frammentato.
Nel 1957 il Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei Ministri, concede la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria al Partigiano Antonino D’Agostino. Nella conca di Vaccherezza una lapide ricorda i caduti, e ogni anno l’ANPI e le autorità locali commemorano l’eccidio.
Giannina, la mamma di Nino, osservò un lutto stretto per tutto il resto dei suoi giorni. La notte precedente alla morte di suo figlio sentì ripetutamente dei colpi, come raffiche di piombo, contro la lamiera del tetto di casa. Un presagio, qualcuno o qualcosa che la stava avvisando. Si alzò per controllare. Il tetto era intatto e tutto intorno solo silenzio. La donna allora tornò a dormire, e cercò di non pensarci più.
Fonti consultate:
Bibliografiche (essenziali)
- Armino, Pino Ippolito – Storia della Calabria partigiana, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2020.
- Boetto Franco, Midellino Luciano, Tabrone Aurora – Percorsi di viaggio con il museo valsusino della Resistenza – ANPI Condove-Caprie, Impremix Edizioni, Torino, 2021.
- Cassarà, Emanuele – Un balilla partigiano, CDA & Vivalda Editori, Torino, 2004.
- Guerrisi, Nuccia, Lentini Rocco – I partigiani calabresi nell’Appennino ligure-piemontese, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996.
- Misefari, Enzo – Partigiani di Calabria, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 1988.
- Tabrone, Aurora, – A Vaccherezza, dove la memoria resistente affiora in ogni pietra, articolo comparso sul sito di PatriIndipendente il 21 settembre 2021
Istituzionali
- Archivio di Stato di Reggio Calabria
- Comune di Delianuova
- Fondo Ricompart
- Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea ‘Giorgio Agosti’
- https://www.museotorino.it/
Orali
- Famigliari di Antonino D’Agostino
- Testimonianze orali di cittadini deliesi