
- 4. Il cavallo di Troia
- 3. Il soldato “professionista”
- 2. Giuseppe Scutellà
- 1. È lo spazio a definire l’identità
Era già accaduto qualche settimana prima che una colonna della 71ª Divisione tedesca valicasse il confine e truppe tedesche in quell’area ce ne erano già. All’indomani della destituzione del Duce infatti, i tedeschi avevano iniziato a dislocare le loro truppe ai confini e poi all’interno del Paese, in maniera graduale e senza voler dare troppo nell’occhio, con la scusa di fare da supporto alle truppe italiane. Sapevano che l’Italia non avrebbe resistito più di tanto allo sbarco alleato, per cui si attrezzarono per farsi trovare pronti in caso di resa. La sera del 25 agosto infatti i tedeschi chiesero il permesso di transito dal valico di Piedicolle. Gli italiani risposero che lo avrebbero concesso solo per il trasporto merci e che avrebbero consentito il passaggio dei convogli militari solo per alcuni chilometri dentro il confine. I tedeschi allora, che sono sempre stati cultori di mitologia greca, si fecero ispirare dallo stratagemma del cavallo di legno con cui gli achei entrarono a Troia, e si stiparono in 200 in un convoglio militare fingendo fosse un treno merci carico di carbone. Giunti a destinazione, scesero tutti e 200 dal carro merci e occuparono letteralmente tutti i punti più importanti del piccolo paese. Gli italiani non rimasero a guardare, e intimarono ai tedeschi di restituire le armi tolte ai loro soldati, obbligandoli a ritirarsi nelle colline vicino al Paese. I tedeschi però erano sempre più determinati a varcare i confini.
Il 27 agosto il Comando supremo dell’esercito diramò l’ordine di predisporre sbarramenti nei valichi per opporsi ai tedeschi ma senza usare la forza nei loro confronti. Si trattava di un ordine in perfetto stile badogliano, che in verità voleva significare che era consentito far passare i tedeschi. Questi ultimi non se lo fecero ripetere due volte e entro fine agosto si erano già piazzati accanto ai reparti italiani, fingendo in sostanza di aiutare l’esercito a proteggere i confini ma, di fatto, circondandolo e prendendo possesso delle principali linee ferroviarie. Alla vigilia dell’8 settembre pertanto c’erano già circa almeno 2500 soldati del Reich nella Provincia di Gorizia. Per tutto agosto c’era stata qualche scaramuccia coi soldati italiani e c’erano già stati incontri ai vertici per gestire questa convivenza. Per questo motivo l’ufficiale tedesco era tutto sommato tranquillo. Nei giorni precedenti aveva oltrepassato il confine già un paio di volte ed era convinto che il peggio fosse passato. E poi era anche convinto che gli italiani, almeno in quell’area, avrebbero collaborato con loro e che non sarebbero stati così stupidi da affrontarli, specie con i partigiani slavi al confine. Non sapeva che c’erano generali, come Bruno Malaguti, che erano tedescofobi fino a dentro al midollo e che sarebbero finiti in campo di concentramento pur di non farli passare. Non sapeva che molti dei soldati di quelle divisioni avrebbero poi ingrassato le fila delle Brigate Osoppo e Garibaldi.
Nel frattempo, dentro la caserma, la linea che prevalse fu quella di resistere. I reparti italiani erano composti da soldati militarmente molto preparati. Molti erano soldati scelti, altri erano reduci da campagne di guerra che li avevano temprati. Se dovessi fare ricorso al perverso concetto di “professionalità”, a difendere i nostri confini c’erano ottimi professionisti. Con scarse munizioni, certo, e con scarsi mezzi, ma era gente che avrebbe venduto cara la propria pelle. Giuseppe era uno di questi. Pensò certo a sua moglie Grazia, sposata sette anni prima. Pensò ai suoi cari. Ma era un soldato scelto, non era uno da lettere o bigliettini. Era ottimista, fiero, forte. Avrebbero respinto i tedeschi e sarebbero stati degli eroi. E se fossero morti, sarebbero stati ugualmente degli eroi.
Boia chi molla. E vaffanculo.
Così qualcuno fece richiamare l’Ufficiale tedesco, al quale fu detto in sostanza che non li avrebbero lasciati passare. Il tedesco si assicurò con l’interprete che era accanto a lui di avere capito bene. Poi salutò, girò i tacchi, radunò i suoi, si mise sulla moto e partì sgommando verso il Comando. La risposta tedesca non tardò ad arrivare. Facciamoci dire direttamente dal resoconto contenuto nel foglio matricolare di Giuseppe come andarono le cose:
Durante un improvviso e proditorio attacco germanico si offriva volontario per comandare una pattuglia in ardita azione di collegamento con altra. Espletata con successo tale missione dalla finestra della caserma guidando un pugno di animosi si difendeva serenamente infliggendo con raffiche di mitragliatrice gravi perdite al nemico preponderante di uomini e mezzi invitando con l’esempio e supremo sprezzo del pericolo i compagni finché, colpito a morte da una raffica, si abbatteva sulla propria arma. Fulgido esempio di amor patrio e di profonda coscienza del dovere. Piedicolle, 9 settembre del 1943, 2º Squadrone, 57º Gruppo appiedato Lancieri “Aosta”.
Questa azione rese Giuseppe meritevole di una medaglia d’argento postuma al valor militare. Non è chiaro perché l’attacco germanico viene definito “proditorio e improvviso”, a meno che non si guardi l’episodio sotto l’aspetto retorico. Sotto l’aspetto storico, non fu un attacco improvviso ma a essere improvviso, o almeno inaspettato, sembrerebbe essere l’atto di resistenza degli italiani. O forse il fatto di reputarlo tale non è altro che la restituzione di un pregiudizio che pervade l’inconscio collettivo e, di conseguenza, chi scrive.
Fatto sta che Giuseppe si diede la morte per non cadere in mano nemica. Fatto sta che era ancora, solo, l’alba del 9 di settembre del 1943.
Fatto sta che ci sono posti in cui basta andare avanti di un metro e sei un carnefice, e se arretri di un metro, sei una vittima.
Talvolta è lo spazio a definire l’identità.
Bibliografia
- Armino, Pino Ippolito, “Storia della Calabria Partigiana” Pellegrini Editore, 2020.
- Patat, Luciano, “La battaglia partigiana di Gorizia” Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale “Leopoldo Gasparini” di Gradisca d’Isonzo (GO), 2015.
- Faldella, Emilio, “Storia delle truppe alpine”, 3 vol. Cavallotti Editore, 1971.
- Cerbo, D., Puletti, R, Saccomandi, “I Lancieri di Aosta dal 1774 al 1970”, Edizione fuori commercio numerata, 1971
- Archivio di Stato Reggio Calabria
- Comune di Delianuova
- Comune di Tolmin, SloveniaDesidero ringraziare Jaka Fili, del Museo di Caporetto, Damjana Fortunat Černilogar e la sezione ANPI – Comitato provinciale di Udine per la disponibilità e le preziose informazioni.