
Nel mio dialetto – io sono di Delianuova, in provincia di Reggio Calabria, “temporeggiare” di dice “ngarïàri”. Si usa spesso quando si è in anticipo su qualcosa, e allora c’è qualcuno che invita l’altro a non avere avere fretta, a temporeggiare, e quindi a ngarïàrsi nell’attesa di assolvere a quel determinato compito. Risulta però evidente come il termine nasconda un lato tetro e culturalmente interessante. Questo termine infatti si incarica di raccogliere su di sé tutte le sfumature dolorose che l’attesa conserva, e lo fa con quella prodigiosa sintesi e complessità che solo le parole posseggono.
Sui dizionari etimologici viene riportato il termine “angariare” col significato di “trattare duramente, opprimere con angherie”. Tale termine lo si fa derivare dal termine latino “angarìa(m)”, che era, cit.: l’obbligo di fornire allo Stato mezzi di trasporto. Questo termine deriverebbe a sua volta dal greco “ἀγγαρεια” (cioè “ufficio del corriere”, “notizia”) che a sua volta deriva da ἀγγαρos che era l’Àngaro, cioè “il messo del re di Persia con autorità di requisire e imporre tasse”. Il termine dunque ha subito una variazione semantica perché all’inizio era deputato a significare un obbligo e poi è finito per diventare sinonimo di “prepotenza”. Inoltre, si è registrato in seguito un passaggio dalla “a” alla “e”, tipico del fiorentino, sempre secondo quello che ci dice Cortellazzo nel suo “Dizionario Etimologico”, e quindi “angarìa” è diventato “angherìa”. Questo manterrebbe in piedi il termine calabrese, che conserva ancora la “a” e che ha una origine direttamente greca. Sia Rohlfs e sia D’Andrea riportano il termine “angarïari” con il significato di “soverchiare, traccheggiare, temporeggiare, molestare, fare prepotenza contro qualcuno, trattare con violenza”. Rohlfs però, a questo significato, nel termine “angaría“, aggiunge il significato di “piccolo e noioso lavoro che serve a compiere un’opera” e lo fa derivare da “ἀγγαρεια”, che vuol dire appunto “notizia, ufficio del corriere”, come abbiamo visto prima. E quindi il cerchio in questo caso si chiude, e possiamo dunque affermare che la restituzione dialettale di “attendere” è traducibile, nel mio dialetto, con “angariare”, con la particolarità che il verbo è riflessivo, quindi “angariarsi”. Sarebbe l’equivalente di “torturarsi”, “darsi pena”.
Credo che un ulteriore commento a questo termine lo priverebbe di valore: questa parola infatti esiste, nella sua essenzialità, proprio per impedire che se ne spendano altre, men che utili. Rimane solo da certificare come l’attesa possa trasformarsi in una forma di tortura, in un angariarsi autoriferito quando ciò che attendiamo non si palesa o quando potrebbe essere un qualcosa di negativo. Il punto però è che questo qualcosa ci domina. Il gergo militare ci restituisce un’immagine di ciò nella figura dell’”attendente”, cioè di un soldato che, in origine, si incaricava del servizio personale di un Ufficiale. I potenti, siano essi persone o concetti, desideri, responsi, oracoli o notizie, si fanno sempre attendere, fino a diventare un ruolo: colui che si fa attendere. Mai infatti nella storia si è visto un potente condannato all’attesa, e quando si è voluto evidenziare la perdita di un potere o una umiliazione, lo si è fatto ricorrendo alla figura dell’attesa (giusto per sollecitare l’orgoglio clericale, citiamo il celebre episodio di Re Enrico IV che, nel 1076, attende tre giorni e tre notti nella neve, fuori dal castello della contessa Matilde a Canossa, pregando che Papa Gregorio VII gli revochi la scomunica). È per questo motivo che difficilmente si vedrà un politico o una persona di successo fare una fila o mettersi in coda. Però, per quanto possa essere devastante l’attesa, è pur sempre espressione di una energia vitale. Come scrive Pavese il 15 settembre del 19461 : Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile.”
1Il Mestiere di vivere, Einaudi, ed. 1990.
In copertina: Steve Hanks (San Diego, 1949), Living in the rain.