
Come scrive Pavese nel “Mestiere di vivere”, il 15 settembre del 1946, “Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile.” Ma non si può, in verità, non aspettar niente, perché colui che non aspetta niente è fuori dal perimetro dell’attesa; ma la frase di Pavese ha il suo centro nel termine “niente”: sarà forse l’indefinito, l’oscuro, il minaccioso? A questo proposito non si può fare a meno di citare “Il deserto dei tartari” di Buzzati, quanto meno perché è doveroso; ma una fortezza Bastiani in effetti, nello stesso periodo in cui Buzzati scriveva il suo grandioso romanzo, in quei giorni esisteva veramente. Era la Francia, durante il periodo della drôle de guerre, cioè la fase intercorrente tra il settembre del 1939 e il maggio del 1940. Tale periodo fu soprannominato così dai giornalisti, e poi dagli storici perché nei mesi intercorrenti tra la dichiarazione di guerra della Francia e dell’Inghilterra alla Germania e l’invasione tedesca della Francia, non ci fu nessun combattimento, se non qualche episodio sporadico. La guerra era perciò fittizia, una guerra-burla, che è appunto la traduzione di drôle de guerre. I francesi si erano schierati nella Fortezza ad aspettare un nemico che però non arrivava mai, nonostante fosse lì, visibile. In casi come questo, a farla da padrone sono i mass-media, che sono i grandi motori dell’attesa patologizzata. Dovunque c’è attesa, c’è un giornale, un notiziario, un sito pronto a rosicarne dei brandelli e a trasformare l’attesa in una drôle de guerre. Le attese così narrate creano ansia negli ascoltatori. L’ansia ha bisogno di rassicurazione per potere evaporare, e i mass media si pongono come soggetti capaci di rassicurare. Cioè, in altre parole, scatenano l’ansia per poi poterla guarire. Si tratta di un meccanismo circolare ed esso stesso patologico, dal quale uno spettatore intelligente dovrebbe emanciparsi, perché altrimenti finirà per essere agito nelle proprie scelte e fare la parte della pallina all’interno di un flipper. Alcuni esempi: l’attesa rituale delle ondate pandemiche; l’attesa rituale delle catastrofi climatiche (pensiamo ai tifoni negli Stati Uniti, dove da questo punto di vista sono arrivati a un livello più strutturato di quello europeo, arrivando addirittura a fornire una onomastica agli uragani, in un delirio antropocentrico che invidualizza hollywoodianamente la natura), l’attesa di presunte “stangate” fiscali; l’attesa di un bombardamento di un nemico (guardiamo al conflitto russo-ucraino, e facciamo attenzione a come la gran parte delle notizie preannunciano un letale attacco russo, che sia alle centrali nucleari o ai gasdotti o ai civili: “si teme un imminente attacco”, è l’incipit più diffuso. Si teme, o ci sarà? Su questa differenza si gioca la terribile angosciante dialettica con l’ascoltatore). Al di là di chi siano i protagonisti di un conflitto, i mass media sono fisiologicamente degli amplificatori di attese e per giunta sono degli amplificatori immorali. Non si preoccupano infatti della salute mentale dell’ascoltatore, poiché lo spettatore è disumanizzato: sono solo due occhi incollati a uno schermo, èd è fondamentale che questi due occhi rimangano inchiodati lì, anche se il prezzo da pagare è una continua tortura psicologica o un sequestro della sua attenzione. L’incantesimo migliore è alimentare l’ansia dell’attesa, il desiderio di vedere se ci sono aggiornamenti nella prossima puntata, il perverso meccanismo della carezza rassicurante dopo avere preannunciato l’orrore. Non è un caso che vi sia un intero genere di spettacolo elevato a sistema che è l’Entertainment, cioè in sostanza l’inganno del tempo, se la vediamo come Pascal, cioè il divertissement, o dis-trazione dalla reale condizione esistenziale dell’uomo, che comporta una incapacità da parte di quest’ultimo di essere fino in fondo umano, riducendolo a un feticcio di se stesso. Una volta (in un tempo non cronologizzato) era il “passatempo”, e sfuggiva alla logica tecnicista e massificata di inganno del tempo collettivamente organizzato. Era un’altra cosa, era il modo che ognuno di noi aveva per compiere un ammutinamento del tempo, o in definitiva, per ammazzarlo. Adesso invece no, non è un tempo da ammazzare: tutt’altro, per i mass media, è un tempo buono per trarne profitto, e quindi per alimentare all’infinito il meccanismo della drôle de guerre. Quest’ultimo meccanismo poi annulla se stesso quando diventa l’eterno preannunciare il pericolo, la storia salvifica del pastorello che, all’ennesima volta che sente preannunciare la presenza del lupo, alla fine non ci crede più, poiché finalmente è riuscito a liberarsi dalla prigionia dell’attesa ansiogena e pazienza se alla fine il lupo arriverà davvero. Sempre meglio che reagire con l’ottundimento narcotizzante, che è il tema al quale accennerò nel prossimo articolo.