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6. Un’attesa bianca come la neve e rossa come il sangue

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Questa voce fa parte [part not set] di 8 nella serie Sull'Attesa

Nella religione cristiana, l’attesa ha un ruolo importante quando Gesù, dopo l’ultima cena, si reca nel Getsemani insieme a Pietro, Giovanni e Giacomo. Nel Sacro oliveto, secondo Marco, Gesù cerca di ridestare tre volte i tre discepoli che nel frattempo si sono addormentati. Il loro sonno è un elemento di grande potenza spirituale e narrativa: l’insopportabilità di quella attesa indiretta li condanna a un sonno potente e ingiusto, specie se messo a confronto con l’angoscia del Cristo, che più volte cerca di ridestarli. A quest’ultimo spetterà la tragica angoscia di guardare l’attesa negli occhi, e da solo. Si tratta di un ribaltamento inconsueto, perché in genere il sonno come antidoto è incoraggiato nelle diverse narrazioni sull’attesa. Il sonno infatti è un altro incredibile dispositivo narrativo, denso di richiami archetipici. Se presumiamo che l’attesa sia un atto di volontà del soggetto per trasformare uno stato di cose e fare in modo che egli stesso si ricongiunga con il suo oggetto di valore, ecco allora che l’antidoto diventa quello di annullare la volontà, annullare il desiderio, annullare lo sguardo dell’uomo che de-sidera la luna. Il sonno diventa quindi la pozione magica che narcotizza la volontà. Lo sapevano bene i greci, che nel mito di Endimione mettono in gioco proprio la dialettica tra l’essere umano e la luna, in un incredibile gioco speculare che ci fa tornare all’inizio della nostra storia, all’uomo paleolitico incantato davanti al cielo stellato.

Si raccontava – scrive Kerényi – che quando Selene scompariva dietro la cresta montuosa del Latmo, nell’Asia Minore, andava a trovare il suo amato Endimione, che lì dormiva in una grotta. A Endimione era stato concesso un sonno eterno, in origine dalla dea lunare stessa, per poter sempre trovarlo nella grotta e baciarlo.1

Secondo altre restituzioni, di Endimione si era innamorato anche Ipnos, il Dio del sonno, che gli diede la facoltà di dormire con gli occhi aperti. Secondo altri resoconti, era stato punito così perché aveva desiderato l’amore di Era. E la fiaba della bella addormentata Rosaspina, che cos’è, se non una ulteriore prova del fatto che gli esseri umani trasfigurano l’attesa in pazienza, e quindi in sonno eterno? In quest’ultimo caso, Bruno Bettehleim2 ci invita a riflettere su una ulteriore forma di attesa che ci porta a intravedere le colonne d’Ercole dell’antropologia dei riti di passaggio: il sonno di Rosaspina è la quiescente passività tipica delle fasi immediatamente precedenti e immediatamente successive all’inizio del ciclo mestruale femminile, prima che si compia il processo di individuazione nel soggetto, simboleggiato dal bacio del principe. Attenzione, non è l’unica volta che ricorre questo schema: se Rosaspina cadeva in un sonno profondo dopo essersi punta con una conocchia, anche Biancaneve cade in un sonno mortifero dopo aver mangiato la mela rossa, e anche lei verrà svegliata dal bacio del principe. Non dimentichiamo che Biancaneve nasce dalla suggestione della madre che, viste tre gocce di sangue cadere sulla neve, esprime il desiderio di avere una bimba bianca come la neve, rossa come il sangue e con i capelli neri come il legno del telaio della finestra.

Entrambi simboli di una trasformazione dolorosa e impressionante del corpo e nel contempo inviti a prendere il proprio tempo, saper dormire, saper aspettare prima che il processo di individuazione si compia. Non è un caso che il nome Rosaspina indichi che la ragazza fosse un rosa circondata da rovi che la proteggevano, e sui quali perirono diversi suoi pretendenti durante il suo sonno. Cioè: ogni cosa a suo tempo, il momento della maturazione arriverà da sé ma mai affrettarlo, cosa che può essere pericolosa. L’attesa diventa amabile pazienza, fine edificante, virtù della saggia adolescente e dei propri genitori che ne guidano le scelte. Come si diceva prima, questa retorica edificante ha poi ceduto il passo al riduttivismo consumistico del principe azzurro che emancipa la donna da uno stato di presunto grigiore quotidiano. Niente di più lontano da quanto invece queste fiabe ci vogliono raccontare. Niente di più mortificante se pensiamo che in realtà le fiabe elencate sono delle profonde elegie dell’attesa da inquadrare nella fase adolescenziale, e non in età adulta.

 

1K. Kerenyi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, p. 169, Il Saggiatore, ed. 1997.

2B. Bettelheim, Il mondo incantato, pp. 195-224, Feltrinelli, ed. 2010.

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