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8. Elogio della tensione

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Questa voce fa parte [part not set] di 8 nella serie Sull'Attesa

Il 27 novembre del 1945 un uomo si avvicina al suo diario. È stanco per la troppa noia. Fuori fa freddo e ha già fatto buio. La fine della Guerra, risalente alla primavera precedente, gli mette addosso una fastidiosa nostalgia di cui si sente in colpa. Non ha da lavorare, non ha da fare nulla in quelle ore. Attende, sfaccendato. Dopo avere preso il suo diario si sdraia sul letto, accende una sigaretta. Poi scrive sul diario: “Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo? “.

Già, perché attendiamo? La domanda che ancora Cesare Pavese,[1] ancora lui, ci rivolge, è cruciale. Possiamo dire che attendiamo perché ci muove un desiderio, cioè vogliamo attivamente fare un tentativo per de-siderare qualcosa, cioè per toglierla dalle stelle e riportarla in terra o alla nostra comprensione. Esattamente come faceva l’uomo paleolitico quando aspettava la luna. La de-siderava, cioè la toglieva dallo spazio per renderne comprensibile il moto e l’essere. “Smetteva di contemplare le stelle a scopo augurale”, per citare testualmente il dizionario etimologico. In altre parole, ne faceva λόγος, potremmo dire, cioè discorso o, per usare un termine che in questa sede ha casa, ne faceva Verbo. Roland Barthes così definisce l’insorgenza dell’attesa:

Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni).[2]

L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità di angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente. (…) E ancora molto tempo dopo che la relazione amorosa si è acquietata, io conservo l’abitudine di allucinare l’essere che ho amato: talora, una telefonata che tarda a venire riesce ancora ad angosciarmi e, in ogni importuno, credo di riconoscere la voce che amavo: io sono un mutilato che continua ad avere male alla gamba amputata.

Sono innamorato? Sì, perché sto aspettando. L’altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco, allora, di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta.

L’innamorato è dunque colui che aspetta, e Roland Barthes conferisce quindi un titolo ontologico all’innamoramento, come costitutivo dell’attesa. “Quando il telefono non suonò, capii subito che eri tu”, direbbe Dorothy Parker. E ci torna ancora in mente Pavese, in una restituzione di un verso di De Gregori, che ci riferisce di Cesare che, perduto nella pioggia, sta aspettando da sei ore il suo amore: lei è una ballerina sua compagna di scuola che diede al diciassettenne ragazzo un appuntamento fuori dal caffè-concerto in cui si esibiva. Il giovane Cesare la aspettò per sei ore, ci raccontano i suoi biografi, dalle 18 fino a mezzanotte, tornandosene a casa fradicio di pioggia e con una pleurite che lo costrinse a letto per mesi. Sfortuna volle che i due non si capirono su quale fosse l’ingresso corretto e che la giovane ragazza andò via da una uscita secondaria, incontrando per giunta un altro spasimante. Al di là del sottotesto di questo episodio che ci rimanda alla “giusta attesa”, in effetti questo movimento amorevole, se così si può dire, questa profonda passione, fa del soggetto che attende un paziente. Per questo l’attesa è alla base di molte patologie nervose, come ci dice un importante psichiatra come Borgna per esempio.[3] Per questo il termine “paziente” è ambivalente: l’esser paziente è una qualità, un sapere aspettare come abbiamo visto. Ma l’esser paziente è nel contempo un ruolo sociale, un habitus in cui ci si traveste da soggetti bisognosi di cure, e l’attesa diventa sopportazione. E se nell’attesa si è pazienti in questo senso, allora ciò che ci attende è ciò che ci cura, e dal quale in definitiva dipendiamo. La religione questa volta ci fornisce una via di fuga interessante dalle angustie dell’attesa patologizzata, pur salvando il concetto di attesa come condizione dell’innamorato: è cioè l’idea che ogni attesa sia in verità una rielaborazione dell’andare verso qualcosa (un ad-tendere, come abbiamo visto – a differenza dell’aspettare, che invece è “un ad-spicere”, cioè un “guardare verso”, e che perciò non è così tensivo come lo è il “tendere verso”). Questa rielaborazione dell’attesa, nella religione cristiana, è tradotta con il termine Avvento. Non è un concetto eminentemente religioso, se è vero che alla base del termine “avvento”, cioè “ad-ventum”, “venuta”, c’è “avvenire”, cioè “accadere, succedere, capitare, venire verso”, cioè “giungere”. Risiede dunque in questo termine anche il mito dell’utopia socialcomunista del mondo nuovo e le ulteriori dottrine messianiche o avveniristiche, religiose e laiche. Il punto interessante però è il movimento semantico che questo termine compie, che è esattamente opposto di “ad-tendere”, cioè andare verso. “Ad-venire” infatti vuol dire “venire-verso”, e questo movimento non è assolutamente secondario. In questo modo infatti l’attesa si annulla e le posizioni si ribaltano. L’innamorato diventa quindi il soggetto da raggiungere in un tempo che piano piano lo sta conquistando. L’avvenire non arriva tutto in una volta ma è un quotidiano e faticoso atto di volontà e di fede del singolo. Nella religione cattolica, l’avvento è il tempo liturgico dedicato alla preparazione del Natale, cioè della festa che celebra la venuta di Cristo. Ma è questa Natività a presentarsi e a raggiungere l’umanità, non è il contrario. Eppure se i termini non mentono, a mentire sono i comportamenti. Allo stesso modo della donna che aspetta il principe azzurro infatti, tutto finisce per essere fagocitato dalla bulimia dell’attualità consumistica: ecco che allora scattano le attese dei regali, le attese delle cene, le attese delle vacanze, per una volta che non siamo noi a dover attendere, abbiamo tuttavia sentito l’esigenza di invertire il movimento, di trasformare questo ad-venire di Gesù in un ad-tendere deteriore, rudimentale, privo di raffinatezza, pacchiano. Queste attese prive di poesia che la contemporaneità ci porge sono estremamente patologizzanti e sollecitano forme di attesa simili ai bollettini medici durante la pandemia anziché alla dimensione eccezionalmente complessa e raffinata che l’attesa, come abbiamo visto, porta in dono. E allora sarebbe opportuno recuperare il senso nobile di questa tensione. Cioè assumere nell’attesa, esistenzialmente intesa, uno sguardo fiducioso, pieno di amorevole attenzione e amicizia nei confronti del divenire.

 

[1]    Ib.

[2] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, pp. 41-43, Einaudi, ed. 2001.

[3]    E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, ed. 2018.

In cover: Carlo Maratta, Natività, affresco, Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, Roma, 1650.

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