
- La definitiva igienizzazione del termine “‘ndragheta”
- Andragathia, in Brutiis
Il termine ‘ndrangheta da diversi anni oramai è sulla bocca di tutti, ibridato con idiomi che mai avrebbero voluto e forse potuto pronunciarlo. Anche molti calabresi faticano a dirne il nome, figuriamoci giornalisti del mainstream, sceneggiatori, registi e tutto il carrozzone del maquillage estetico e politico sul tema.
Ma il termine in qualche modo, nella osticità della sua pronuncia e nella difficoltà a ritrovarne un significato univoco e condiviso, resiste, al di là delle sue evocazioni.
Oltre agli aspetti fonetici, a fare resistenza è soprattutto la comprensione dell’origine etimologica del termine. Ci sono diverse interpretazioni che grosso modo fanno capo a tre grandi filoni interpretativi. Uno lo definiremo mosiniano, in onore dell’illustre studioso Franco Mosino, un altro lo definiremo martiniano, in onore dell’accademico Paolo Martino, che nel saggio Per la storia della ‘Ndrànghita ha fornito quello che rimane a oggi il più importante e preciso documento sulla storia etimologica del termine, il terzo è il filone della Crusca, altrettanto stimolante e affascinante.
Questi tre filoni ovviamente non sono gli unici, ma racchiudono a loro volta altre interpretazioni di altri illustri studiosi che negli anni si sono cimentati con lo studio di questo termine.
Partiamo dal filone mosiniano: tutto ha origine da un’attestazione di un dizionario dialettale del 1909 a opera di Giovanni Malara, che nel Vocabolario dialettale calabro-reggino1 riporta il termine “ndranali, ndranghiti, v. tracandali”, dove i primi due termini sono considerati sinonimi di “tracandali”, cioè “uomo balordo, stupido”; “pezzu di tracandali”, “scioperone trascurato”. Il significato di questo lemma è ripreso dal caro Rohlfs, che nel Dizionario dialettale delle Tre Calabrie del 1934 riporta il termine del Malara salvo poi eliminarlo nell’edizione del 1977 e relegarlo come sinonimo di ‘stupido’ nel Repertorio in calce. Questo è un passaggio molto importante perché vuol dire che in quegli oltre quarant’anni che separano la pubblicazione dei due dizionari, il celebre filologo tedesco non si è mai evidentemente imbattuto nel termine segnalato da Malara nel 1909 – o forse ha trascurato di approfondirne l’etimo non ritenendolo importante. Vero è che in un rapporto dei Reali Carabinieri di Bianco del 4 dicembre del 19232 si fa riferimento a un’associazione criminale chiamata “Ndranghiti”, ma Rohlfs comunque potrebbe non aver mai sentito il termine (nel Supplemento dei dialetti calabrese e siciliano, Rohlfs riporterà il termine “dràngada”, “associazione malavitosa”, ascoltato a Rometta in provincia di Messina).
Piuttosto, nell’edizione del 1977, Rohlfs riporta il termine “ndranghita” traducendolo come “malavita, mafia” (gergo) e rimandando a “ndrina”, la quale però rimanda di nuovo a “ndranghita”. Insomma, l’illustre filologo tedesco sembra quasi lavarsene le mani. Mosino3 riprende l’etimo del Malara, riportato dal Rohlfs nell’edizione del 1934, e traduce “’ndranghita” e “ndranghitisti” definendoli come coloro che “si credono furbi, più furbi naturalmente della polizia, ma, per un’antifrasi di sapore ironico, usano chiamare balordi, cioè stupidi, se stessi (e balorda la loro attività) e furbi i loro antagonisti, i poliziotti”. Ma è evidente che anche in questo caso a Mosino, come a Malara e come a Rohlfs, sfugge qualcosa. Il primo, attestando il termine “ndranghiti” ha effettivamente scritto un termine corrente ma traducendolo in modo che oggi sembra forzato e univoco; il filologo tedesco nel 1934 ha ricopiato il termine prendendolo probabilmente dal dizionario del Malara ed espellendolo nella revisione del 1977. Mosino ha ripreso il termine corretto incanalandolo però nel significato di Malara e insistendo sulla traduzione del termine nel contesto semantico di “furbizia/stupidità”, attingendo a piene mani nel gergo criminale letterario.
In tutto questo marasma interpretativo, l’einaudianissimo Ernesto Ferrero da Torino ci ha fornito un’illuminante traduzione di ‘ndranghetisti come di “una voce scherzosa e imitativa che riproduce la perentorietà dell’azione criminale”. Ma era il 1972, negli anni in cui la ‘ndrangheta non andava di moda ed era cannibalizzata dalla grande saga della famiglia Corleone. Il mainstream ancora non considerava il fenomeno sufficientemente cool da potervi dedicare qualcosa in più che un chiacchiericcio da salotto o delle definizioni incredibilmente approssimative.
Il secondo filone è quello martiniano. Paolo Martino, già professore ordinario in Linguistica e attualmente professore onorario in pensione, ha scritto, tra le tante altre cose, Storia della parola ‘ndranghita (1978) e Per la storia della ‘Ndrangheta (1988)4.
La tesi di Martino sull’etimologia del nome è molto affascinante perché capovolge l’interpretazione semantica fornita dal filone precedente. Leggiamo le parole scritte direttamente da lui, premettendo che la traslitterazione dei termini greci in italiano è mia, ed è dovuta a esigenze divulgative:
“(…) L’analisi di tali aspetti semantici ci ha indotto a ravvisare nelle forme calabresi ‘ndrànghitu (ora in regresso a favore di ‘ndranghitista) e ‘ndranghitiari il riflesso delle voci greche ἀνδράγαθος (andragathòs) ‘uomo nobile, coraggioso, degno di rispetto in virtù delle proprie capacità’ e ἀνδραγαθέω (andragathèo) ‘distinguersi per atti di valore, compiere azioni degne di gloria e onore’. Al significato di queste voci greche antiche inerisce quel complesso di qualità virili che sono designate dal sostantivo astratto ἀνδραγαθία (andragathìa)‘coraggio, valore in guerra, virtù, rettitudine’, attestato fin dal V sec. a.C. in fonti letterarie ed epigrafiche”.
Chiariamo che quando Martino scrive “l’analisi di tali aspetti semantici” si riferisce appunto al fatto che il termine ha in effetti, storicamente, una valenza positiva, intesa come “uomo coraggioso, forte, valente, impavido, che non teme nessuno”. Nulla a che vedere con l’interpretazione fornita dal filone Melara-Mosino-Rolhfs. Tra l’altro, essendo io nativo aspromontano, confermo, da parlante, che il termine “’ndranghitista” ha anche un significato di uomo che non si fa sopraffare, coraggioso e spietato. È forse la sfumatura semantica legata alla spietatezza che fa deviare il termine verso un significato di “uomo pericoloso”, e che esige furbizia, scaltrezza. Sicuramente, il racconto massmediatico ha col tempo piegato il termine verso un significato opposto a quello originario. L’uso dunque è come un vento che piano piano modifica e leviga la materia lessicale, modellandola secondo la visione che una cultura ha di un determinato fenomeno.
Continuiamo con l’affascinante excursus di Martino:
“Il sostantivo astratto ‘ndrànghita per ragioni formali non può riposare direttamente sul gr. Ἀνδραγαθία (andragathìa); esso si configura piuttosto come un deverbale a suffisso zero di ‘ndranghitiari, secondo un modello di formazione nominale largamente noto ai dialetti calabresi. L’evoluzione postulata si fonda anche su una piena plausibilità semantica: ‘ndrànghita si poté prestare alla designazione della “mentalità mafiosa” e quindi della stessa “onorata società” proprio perché l’adesione a quest’ultima era un tempo possibile solo a chi fosse omu, cioè a chi possedesse quell’insieme di qualità che eccellono in chi è ‘ndrànghitu, uomo valoroso e uomo d’onore”.
Ho prima scritto che Martino scrive due articoli saggistico-scientifici su questo termine. Perché? La seconda revisione si è resa necessaria perché nella versione del 1978 lo studioso non aveva ancora trovato attestazioni scritte che dimostrassero il collegamento tra il termine calabese ‘ndrànghita e il greco ἀνδραγαθία (andragathìa). Ma nel 1988 Martino rimette mano al suo studio e ci rivela una singolare e affascinante scoperta:
“Nel 1596 il cartografo olandese Abrahamus Ortelius pubblica ad Anversa il IV Additamentum al suo Theatrum Orbis Terrarum (la prima edizione era del 1570), ampliando anche la raccolta di carte storiche, ivi contenute, che reca il titolo Parergon, sive veteris geographiae aliquot tabulae, e che risaliva al 1578. Tra queste ultime, che forniscono informazioni non solo propriamente geografiche, ma anche storiche ed erudite, viene inclusa la Graecia major, datata 1595, che esibisce un quadro geografico ed etnografico dell’Italia meridionale antica costruito in base a fonti geografiche e storiografiche classiche e contemporanee, e con l’ausilio di carte nautiche e portolani. Una porzione della Graecia major, sul versante tirrenico dell’Appennino campano-lucano, corrispondente approssimativamente al territorio dell’attuale Cilento, reca la dicitura Andragathia regio, sormontata dalla scritta LVCANI in maiuscoletto. Più esattamente, la regione denominata nella carta orteliana “LUCANI – Andragathia regio” confina a Oriente con il tratto appenninico (Apenninus mons) che va dalle sorgenti dell’Aufidus (Ofanto) a quelle dell’Hales (Alento), si estende a occidente fino al mare Tirreno, limitatamente al tratto che va dal corso del Silarus (Sele) a quello del Laos”.
A questo punto si apre un’altra domanda, e cioè da dove Ortelius abbia preso questo termine, e come gli sia saltato in mente di inserirlo nella carta. A tale domanda ci risponde lo stesso Ortelius, che nel suo Thesaurus Geographicus cita Diodoro Siculo come fonte: “andragathia, in Brutiis, Posidoniatarum regione. Diodorus”. In particolare, il passaggio citato da Ortelius riguarda il libro IV 22, 1-3 della Biblioteca storica dove Diodoro racconta che a un certo punto del suo cammino, Eracle arriva in una rocca nel territorio dei posedoniati (per intenderci, arriva quindi dalle parti della colonia che i fondatori sibariti chiamarono Posidonia, poi possesso dei Lucani e che i latini chiamarono Paestum). Qui, dice Diodoro, avvenne un fatto assai singolare: una volta un cacciatore famoso per i suoi atti di valore durante la caccia (ἀνδραγαθήμασι διωνομασμένος, è qui che il termine compare per la prima volta, anche se Diodoro la usa anche in altri passi), osò oltraggiare Artemide dedicando un trofeo di caccia a se stesso anziché alla Dea, come faceva di consueto. Egli infatti era solito tagliare la testa degli animali cacciati e inchiodarle all’albero, in segno di venerazione verso la Divinità. Ma una volta decise di legare la testa di un cinghiale a un albero e di dedicare il trofeo a se stesso. Il giovane poi si addormentò, la fune che legava la testa dell’animale all’abero si sciolse, colpì il cacciatore e lo uccise, quasi come una punizione divina per la sua empietà. Secondo la pista seguita da Martino però, il termine “andragathia” denota non tanto l’atteggiamento sfrontato del giovane, ma il suo essere un valoroso cacciatore.
1Reggio Calabria 1909, rist. Bologna 1970.
2 Citato nel bel libro Male Lingue: Vecchi e nuovi codici delle mafia, di Nicaso-Gratteri-Trumper-Maddalon), Pellegrini Editore, Cosenza 2014.
3 Negli articoli ‘Ndràngheta, la mafia calabrese, Lingua Nostra 33, fasc. 3, 1972, p. 87 e in Note e ricerche linguistiche, Reggio Calabria 1977, pp. 101 sgg.
4Il primo pubblicato in Quaderni calabresi, n. 44., pp. 48-63; il secondo presso la Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche, Dipartimento di studi Glottoantropologici dell’Università La Sapienza di Roma, volume 25, Op. III.