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Da Venezia a Gerace: la riscoperta di una rotta artistica e commerciale

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La conoscenza non dev’essere appannaggio di pochi e diventare pretesto per la propria superbia ma patrimonio condiviso e base di crescita per la comunità. Partendo da questo concetto, l’esigenza di divulgare i risultati di una ricerca pluriennale, portata avanti grazie al supporto degli Archivi di Stato di Reggio Calabria, Messina e Catanzaro, esaminando centinaia di carteggi, documenti notarili e “regesti” difficili da interpretare, ha messo in luce una realtà capace di restituire ai calabresi l’orgoglio di aver espresso una forma d’arte mai opportunamente valorizzata ma che, nel ‘600, ha conosciuto una grande diffusione anche fuori dalla regione. Studio oggi culminato in una mostra, “Da Venezia alla Calabria: la maiolica secentesca di Gerace riscoperta”, a cura degli esperti Mario Panarello, Guido Donatone, Monica De Marco e Vincenzo Cataldo, realizzata con il contributo della Regione Calabria e con la collaborazione di Heritage Malta, che prenderà il via dal 4 luglio e sarà aperta al pubblico fino al prossimo 31 agosto presso il Museo delle Ceramiche di Calabria di Seminara, luogo storicamente legato alla produzione della ceramica.

L’esposizione parte da un nucleo importantissimo di vasi di produzione veneziana, rappresentato da un gruppo di bocce commissionate all’ultimo seguace del celebre artista Domenego de Beti dal Gran Maestro Alof de Wignacourt, per la Sacra Infermeria de La Valletta, e concessi in prestito dal MUZA (National Museum of Fine Arts di Malta), per poi ripercorrere la storia della maiolica di Gerace, dai prodromi fino alle ultime espressioni, attraverso oltre quaranta vasi da farmacia databili tra il 1610 e il 1700. I vasi venuti da Malta fanno dunque parte del corredo di una spezieria che era la più importante all’interno dell’omonimo ordine di Cavalieri. Siamo nel primo decennio del ‘600 quando il Gran Maestro Wignacourt, notissimo come committente di Caravaggio, da “ospedaliere”, figura che sovrintendeva alla Sacra Infermeria, decide di dotarla di un corredo di vasi che rechi il suo emblema rivolgendosi a una delle ultime botteghe attive a Venezia, che ancora portava avanti lo stile del maestro Domenego. Ma, si sa, le maioliche hanno natura fragile per cui, quando questi vasi si rompevano, c’era periodicamente l’esigenza di acquistare nuovi esemplari, ed è proprio qui che subentrano le maestranze di Gerace, perché nel momento in cui a Venezia non c’era più nessuno in grado di produrre un manufatto con quelle determinate caratteristiche, a Gerace si intraprende una produzione che va a ricalcare proprio il modello veneziano e la porta avanti per circa un secolo, con un’evoluzione che rappresenta un fenomeno artistico straordinario, tra i pochi a livello regionale che è riuscito a imporsi anche al di fuori dei confini della Calabria.

Di qualità eccezionale anche dal punto di vista figurativo, questa maiolica calabrese si distingue per caratteristiche non solo dai prototipi veneziani ma anche dai prodotti delle fabbriche siciliane che hanno un linguaggio diverso. Spiccano alcuni dei manufatti realizzati nel 1617 per il corredo del Grande Ospedale di Messina, fondamentali per ricostruire l’attività delle botteghe geracesi. E, tra i pezzi più significativi in mostra, ci sono due vasi di eccezionale importanza storica, datati e firmati rispettivamente da Jacovo Cefali (1617) e da Alessandro Mandarano (1678). La fortuna delle fabbriche geracesi fu decretata da una felice strategia commerciale: riproporre, quando ormai a Venezia la maniera di Domenego era in declino, schemi decorativi di matrice veneziana ben noti e apprezzati, in particolare in Sicilia e a Malta. Il catalogo della mostra, redatto con la collaborazione di numerosi studiosi e istituzioni museali non solo italiani, traccia la storia del modello decorativo messo a punto a Venezia nella bottega di Maestro Domenego, sviluppato dai suoi seguaci e, successivamente, ripreso e rielaborato dalle officine di Gerace.

La Calabria aveva un formidabile fermento nel ‘600, che non fu solo il “secolo del pianto”; in questo periodo ci troviamo di fronte a una straordinaria mobilità di artisti: gli artefici della scuola di Gerace erano in realtà originari di Nicastro, l’attuale Lamezia; Jacovo Cefali e Giuseppe Piraina, principali interpreti, lasceranno a Gerace delle botteghe attive. E, ancora, maestranze serresi, artisti che si spostavano da un centro all’altro, i pittori di Monteleone o quelli di Reggio che operavano nel crotonese, scalpellini e intagliatori. Lo studio restituisce un affresco della ceramica del ‘600 in cui, contrariamente a quanto si pensava, Gerace è molto dinamica e interloquisce con Messina, città con la quale ha un rapporto privilegiato, fino alla rivolta antispagnola del 1674, e dialoga poi con Napoli e Monteleone, l’attuale Vibo. In quegli anni, esiste ancora l’“oro bianco” della Calabria ovvero la seta: il geracese è un grande produttore di seta e la città è estremamente effervescente.

Gerace è un feudo dei Grimaldi di Genova strategicamente posto sui due mari, lo Jonio con la sua produzione di seta, il Tirreno per la vicinanza con il porto di Messina, importante per il movimento di merci che partivano alla volta di Livorno, Genova e della Francia; emerge un quadro di grande disponibilità di capitali, dovuta anche alla grande produzione d’olio d’oliva destinato per fare il sapone a Genova e in Francia e per illuminare le grandi città europee. Si producono anche altri prodotti: sale, salnitro, elemento base per la produzione della polvere da sparo. In questo fermento, da Messina arrivano le maestranze per la realizzazione della fontana della Piana, nel centro del borgo, importando anche i materiali per realizzarla; da Messina arrivano persone autorevoli perché evidentemente Gerace aveva degli spazi vuoti, sia sociali sia economici, e i geracesi vanno a Messina. Tale Ligotti, nobile messinese, arrivato nei primi anni del ‘600, diventa sindaco, addirittura gestisce la bilancia della seta, che era importantissima, e diventa anche imprenditore; si fanno dei prestiti ingenti, migliaia di ducati che servivano a incrementare possedimenti, con la seta si acquistano feudi. Emergono anche situazioni contrastanti perché a Gerace ci sono i vescovi che hanno un loro spazio specifico, una giurisdizione che non vogliono perdere e che, spesso, sia i nobili e sia il principe Grimaldi tentano di aggredire; è questo il clima che vivono gli operatori dell’arte. A Gerace è presente anche una certa mobilità sociale, i figli di questi artisti diventano sacerdoti o notai. Tutti elementi affiorati dallo studio condotto dalla squadra di Monica De Marco.

L’originalità della ceramica di Gerace è che si lega alla madre veneziana ma ha una sua peculiarità nella cromia e nella sensibilità della decorazione radicate nella nostra cultura. Gioiello della corona della mostra è un pezzo che viene dal museo regionale di Messina, attenzionato da studiosi di maiolica rinascimentale di tutto il mondo, firmato da Domenego in persona (la ricerca ha anche scoperto i suoi dati biografici): un vaso importante, datato 1562, tra i pochi pezzi superstiti di un corredo di cui sono rimasti solo due esemplari, con una decorazione a trofei, strumenti musicali, cavalli, cavalli marini, immagini che parlano da sole. Vi è poi un pezzo dell’ultimo interprete del linguaggio messo a punto da Domenego, che testimonia l’attività dei suoi seguaci, i quali concepiscono un modello decorativo a fogliame, con dei fiori fantastici, che non si trovano in natura, bacche e frutti: sono questi i due modelli decorativi ripresi da fabbriche di Gerace. Morto Domemego, la produzione viene portata avanti fino al 1609, quando muore maestro Bernardino, l’ultimo conduttore della fornace appartenuta al Maestro. La cosa interessante di questo corredo è che non vengono rappresentate figure auliche o cortigiane ma personaggi del popolo, come, ad esempio, un marinaio inglese. Dopodiché, il mercato di Gerace si interrompe non riuscendo a diffondere più ad ampio raggio il prodotto e i cavalieri di Malta si rivolgono a Caltagirone. Questo e altro ancora racconta una mostra che non è fine a sé stessa ma che restituisce ai visitatori delle opere che rappresentano nel tempo un fenomeno così importante e sconosciuto.

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