
L’espressione “Donare la vita” mi porta a pensare alla mamma che è colei che dopo la gestazione, partorendo, dona la vita. La mamma, figura di incommensurabile valore affettivo verso il figlio (intendo evidenziare l’aspetto sentimentale, amorevole del rapporto), è la sola che può col parto, quindi materialmente, espletare questo meraviglioso atto utile alla continuazione della specie: materia umana che genera altra materia umana. Non c’è dualismo, ovvero contrapposizione tra le due essenze dell’essere mamma: genitrice (colei che partorisce, che genera) fisicamente e colei che per eccellenza ama (non è quantizzabile l’amore di una madre per il proprio figlio). Se per una madre donare la vita, quindi mettere al mondo una sua creatura, è un atto naturale, donare qualcosa di nostro ad altra persona è un atto che riveste un significato filantropico smisurato; ancor più se lo caliamo nella realtà della vita che quotidianamente affrontiamo. Tutto è improntato al “do ut des” dei latini, ovvero “ti do se mi dai” perché sappiamo che tutto ha un prezzo, che ottengo se pago; ed ancora, proviamo a pensare con quale vigorosa puntualità facciamo subito osservare che ora è il nostro turno (se per esempio siamo in fila) o riteniamo mentre procediamo in automobile che la manovra compiuta dall’altro ci abbia in qualche maniera penalizzato. Viviamo in un mondo in cui l’egocentrismo: “io al centro”, l’individualismo: “io individuo” sono posizioni spesso dominanti; gli altri? Sono satelliti che ci girano intorno, spesso utili solo per espletare quello che a noi serve. Ebbene, in una società che va in questa direzione, c’è chi sente di dover donare il proprio sangue perché sa che questo è utile ad una moltitudine di suoi simili, sa che chi riceve, in molti casi, grazie a quel sangue ha una aspettativa di vita (anche questo è donare la vita) che altrimenti non avrebbe; e chi dona, lo pensavo ogni giorno, nella quotidianità del mio lavoro, ha la pazienza di sottoporsi a controlli preliminari per sapere se può effettuare la donazione, ha la bontà di accettare che il medico gli dica che quel giorno in cui si è presentato è opportuno non effettuare la donazione per i più svariati motivi; eppure il donatore di sangue, che sente di doverlo fare, torna al tempo dovuto per riprovare. E così tre o quattro volte nel corso dell’anno; sono certo che non viva per i donatori quella sorta di maniera dell’apparire, o di sentirsi protagonisti, come attori di uno dei tanti reality che spopolano sulle reti televisive.
Donare la vita ha un valore ancora più oneroso per quei donatori che oltre alla donazione del sangue, si iscrivono per candidarsi alla donazione di Cellule Staminali. Aderendo a questo programma chi si iscrive sa che si sottoporrà a un primo prelievo di sangue, utile alla tipizzazione del proprio sistema di istocompatibilità. Se, confrontando la mappatura, con ulteriori controlli, si riconoscerà una sovrapponibilità con il sistema di un paziente in attesa di un trapianto, il donatore si sottoporrà a preliminare stimolazione con fattori di crescita e a un processo di aferesi per la raccolta di un cospicuo volume di plasma ricco di cellule staminali. Le cellule staminali così raccolte, verranno infuse al ricevente che, intanto, ha subito un pesante ciclo di chemio e radioterapia, con l’intento di preparare il terreno per l’infusione delle cellule staminali del donatore che, attecchendo, vanno a ripopolare le classi di cellule del suo sangue, sostituendosi a quelle malate e restituendo la vita al ricevente che da quel momento avrà lo stesso gruppo sanguigno del donatore. Toccare con mano il bene, che con semplicità tanta gente elargisce spassionatamente, ci permette di vincere l’atteggiamento pessimistico che le notizie che quotidianamente ci giungono da ogni parte del globo imporrebbero. È vero, nulla di nuovo emerge alla luce di queste considerazioni, perché il bene, per la cui attuazione tanti si prodigano, ha sempre avuto come contralto il male perpetrato da tanti altri individui. La certezza che siano i più coloro che sono votati al bene, ci permette di andare avanti: a tal proposito mi sovviene il ricordo di una notte trascorsa in ospedale; vengo chiamato perché a causa di un incidente, c’è bisogno di trasfondere del sangue.
Una donna ed un bambino sono gravemente feriti perché travolti da un’auto mentre procedevano lungo una strada di campagna nel corso di una serata estiva. Le condizioni appaiono immediatamente gravi e, precipitano al punto che per entrambi si evidenzia la condizione di morte cerebrale: pur continuando l’assistenza con trasfusioni di sangue e l’impiego dei presidi terapeutici utili per mantenere vitali gli organi, viene chiesta ai congiunti la “non opposizione” all’espianto degli organi. Ho pienamente condiviso il dramma che i congiunti degli incidentati hanno vissuto in uno spazio di tempo così breve: prima accettare la dipartita di due persone care ed ancora interrogarsi se dare il via all’espianto degli organi che potevano essere reimpiantati e quindi donare “vita” ad altri individui. Fu dato parere favorevole all’espianto e cominciò la corsa delle equipe specialistiche: una per ogni tipo di prelievo d’organo che si andava ad effettuare, ed intanto la notte scorreva, non sentivo affatto la stanchezza, col tecnico di turno, ci cimentavamo nel tipizzare ed assegnare unità di sangue utili affinché, fino al momento dell’espianto, ogni singolo organo mantenesse le migliori condizioni di funzionalità, ma il pensiero correva al di là delle mura che separavano i locali in cui lavoravo da quelli in cui, in attesa, i congiunti erano ospitati e quelli delle sale in cui due vite cessavano di essere, per rendere la vita ad altri individui. La condizione di salute dei due incidentati poche ore prime era brillante: essi tornavano a casa in bicicletta dopo una passeggiata serale, ora invece la loro vita era cessata, permettendo ad altri individui le cui condizioni di salute poche ore prima erano disperate, di tornare alla vita. I due incidentati erano inconsapevolmente divenuti donatori; come tutti gli altri donatori consapevoli, nulla di eroico nella propria vita, un’esistenza quasi sempre fatta delle cose comuni, come quelle di ogni donna e uomo di oggi: lavoro o scuola, famiglia, impegno sociale, amore, dedizione, amici.
E come spesso accade, ad un certo punto un elementoimprevisto interviene a toglierti dall’anonimato: la scelta consapevole in vita, ti permette di donare periodicamen te il sangue, il plasma, le piastrine, le cellule staminali; ed ancora, se in vita hai formulato la scelta per la donazione degli organi, è automatica la prassi utile per gli espianti, in caso contrario c’è chi deve decidere al tuo posto. In ogni caso, pensavo, l’ospedale è il luogo in cui le persone sono costrette a misurarsi col dolore: la fine imprevista dell’esistenza per i due incidentati, la lotta estenuante contro la malattia per chi era in procinto di ricevere un organo che avrebbe potuto cambiare la propria qualità di vita, in alcuni casi ridargliela. Le corse, gli affanni, la voglia di arrivare, cercando di anteporsi agli altri, a fronte di queste considerazioni, perdono ogni valore; ci si accorge di quanto tutto è precario, nel senso che determinare gli eventi è impossibile e quello che mezz’ora prima ci pone in una condizione di privilegio per quanto il metro umano di giudizio ci consenta, un’ora dopo ha un valore, per ciò che è terreno, pari allo zero. La vita e la morte, due condizioni che sono agli opposti, l’alfa e l’omega, distanti concettualmente, ma così vicine nel determinarsi di eventi imponderabili. È la storia dell’uomo che si ripete. Egli deve piegarsi di fronte a determinati eventi: ebbene, riesce a porre mezzi e tecniche per cercare di convivere con eventi negativi, addirittura traendo motivi di vita da situazioni di morte, ma non può andare oltre, deve accettare i limiti che sono connessi alla sua finitezza. È giusto che ponga in essere tutto quanto la sua intelligenza, marcatore fondamentale del suo esistere riesce a produrre, ma deve, al di là di certi limiti, accettare quello che la natura impone, facendo valere ciò che il suo cuore, non solo quello trapiantato, se votato al bene è capace di produrre: un mondo d’amore.