
Quando il dottore Gigi Ioculano, il 25 settembre 1998, si recò nel suo studio a svolgere il suo lavoro, era una mattina plumbea, piovosa, quasi ad anticipare la tragedia che da lì a qualche minuto si sarebbe consumata. Alle 7,10 suona il campanello: è un suo cliente, contadino, che vuole offrire una primizia del suo orto; una cosa buona, quindi, sembrerebbe, ed invece subito dopo ecco spuntare dall’ombra il suo killer che lo uccide con quattro colpi di pistola. Quel giorno Gioia Tauro fu ricacciata nelle tenebre: Gigi era conosciuto unanimemente come un bravo professionista e, soprattutto, era considerato dai più un simbolo di lealtà e di senso civico, impegnato nella costruzione di una città diversa, segnatamente diversa da tutte quelle perverse dinamiche che l’hanno resa succube del malaffare delle cosche locali di ‘ndrangheta.
In questo senso la sua “creatura” più nobile è stata l’associazione culturale “Agorà”. L’agorà nell’antica Grecia era la piazza principale della città, posta ai piedi dell’Acropoli (il punto più alto dove si esercitava il culto religioso), in essa avvenivano gli scambi commerciali e ci si poteva confrontare animatamente sulla vita politica cittadina. Gigi conosceva l’importanza di tenere vive le tradizioni sapienziali di un popolo, per questo egli voleva riconnettere la sua città con gli antichi splendori della Magna Grecia, dando ragione a Luis Sepulveda che afferma: “un popolo che non ha memoria è un popolo senza futuro”. Per tale motivo, insieme ai suoi collaboratori, egli aveva dato questo nobile e pregnante nome all’associazione. Il suo sogno era quello di ridare a Gioia Tauro decoro, vitalità culturale e progettuale, un nuovo sviluppo per poterla riportare agli antichi splendori. Nella prima uscita di “Agorà”, Gigi, in un passaggio cruciale diceva: “Abbiamo individuato nella cultura una delle terapie più utili per contribuire a guarire la società gioiese dai malanni e dai veleni che l’appestano… è giusto che la fiducia e la speranza non muoiano, e non devono assolutamente morire”. Ma così non è stato, il suo sogno si è infranto contro le vili mani di un assassino, ma non solo; il suo sogno è stato spezzato anche perché le istituzioni locali, i suoi concittadini, gli amici, soprattutto alcuni amici a cui egli aveva dato molto credito per potere cambiare le sorti di questa città, ad un certo punto non l’hanno più sostenuto. E noi sappiamo che una delle prime cose che fa la criminalità organizzata con una persona che vuole veramente combattere questo sistema perverso è quella di toglierle legittimità sociale, e, quindi, isolarla. E questo è successo con Gigi.
Le figlie di Gigi hanno perso un buon padre di famiglia, la moglie un buon marito, i nipoti uno zio affettuoso, lasciando un vuoto incolmabile; la città di Gioia Tauro, invece, ha perso irrimediabilmente un uomo dalle virtù umane e civili uniche, e constatiamo amaramente che a 23 anni dal suo martirio nulla è cambiato per quanto riguarda l’assetto generale della comunità gioiese. Gioia Tauro non è cambiata da allora, perché non si cambia attraverso i proclami o le buone intenzioni di chi dice di amare la città e poi, si comporta in un modo tale da maltrattarla, offenderla, depredarla; non è cambiata nemmeno quando le istituzioni, in qualche occasione, hanno voluto ricordare Gigi, forse perché esse non hanno ben compreso che “ricordare” significa stare sulla stessa lunghezza d’onda o linea del cuore in chi si vuole, appunto, fare memoria, e, quindi, seguire le sue tracce, il suo modello di vita. Dal periodico culturale di “Al di là dello Stretto”, diretto dall’amico Domenico Latino, spero che oggi possa partire una spinta a produrre quel nuovo e necessario cambiamento di prospettiva cui ha bisogno Gioia Tauro, e rendere testimonianza al grande lavoro svolto dal nostro Gigi Ioculano.