
L’essere è e non può non essere” affermava Parmenide, filosofo vissuto ad Elea intorno al VI-V secolo a.C., arrivando ad identificare con siffatto termine ciò che si può pensare, conoscere e dire. Come se, per il solo fatto di esistere, di sussistere, l’essere avesse il diritto di rientrare nella sfera gnoseologica del vero, in quella logica del linguaggio, in quella ontologica di essere stesso. È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è; il nulla non è.
“Mai questo può venire imposto, che le cose che non sono siano: ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero.
È la stessa cosa pensare ed essere”.
Il non essere, viceversa, non è ammissibile nella sfera alta del pensiero, della conoscenza, della linguistica perché di fatto non esiste, non è. Il divario tra logos e doxa, la mera opinione, non potrebbe che essere più netto. La ragione prevale sul senso, il fenomeno è svalutato alla luce di una razionalità del reale, di hegeliana memoria, che viene riconosciuta come unica struttura esistente. Lo spazio da riservare alla sensibilità si riduce, nella sfera del pensiero eleatico finalizzato ad identificare l’essere con la mente, a sterile apparenza, parvenza di ciò che è, quasi niente, quasi nulla. Un nulla che, nella fattispecie, non può assumere neppure le vestigia del vuoto, dal momento che anche quest’ultimo non è misurabile in uno spazio che, atomisti a parte, conosce solamente il pieno, la circolarità, la finitezza. L’accettabilità dell’infinito si riduce ad un’ipotesi stravagante, ad un’aporìa da eliminare, da escludere. Eppure quel non essere, quella dimensione di oscurità in cui si permutano elementi opposti, identici nella loro diversità, unici nella loro molteplicità, comincia a fare capolino insinuandosi nelle pieghe della prima sofistica, quella del V secolo a.C. è Gorgia, filosofo che fa del sapere e della cultura un “mestiere” quantificabile in puro lucro, ad introdurre il baratro spaventoso del non senso. Niente può essere perché se fosse sarebbe inconoscibile e se fosse conoscibile sarebbe incomunicabile, sarebbe ciò che non si può raggiungere perché di fatto non c’è. Non esiste. L’uomo naviga, così, tra le acque di un agnosticismo che tutto scuote, tutto mette in dubbio in un gozzoviglio di inquietudine crescente, di incertezza, di relativismo culturale, morale, metafisico, gnoseologico. L’Olimpo pare svuotarsi delle sue divinità mentre l’umanità arranca tra fumi di incertezza. Una sola dimensione sembra sopravvivere alla tenebra di questo scetticismo che lascia aperta una finestra al più cupo nichilismo: la forza della parola. Un incanto persuasivo quello della retorica: applicata al linguaggio, conferisce all’uomo il potere di persuadere il proprio interlocutore convincendolo, per mezzo di sofisticate tecniche, che tutte le tesi potrebbero risultare esatte se ancorate al criterio dell’utilità. L’utile del singolo, l’utile della collettività decantato da un altro esponente della prima sofistica, Protagora.
“Di tutte le cose è misura l’uomo; di quelle che esistono in quanto esistono, di quelle che non esistono in quanto non esistono”.
La verità non coincide più con la razionalità di un reale che si rispecchia ormai con l’interesse di una comunità, quella umana. E le leggi sembrano nascere da una convenzione, da un accordo tra “utili” che disancora la loro sacralità di forze sovrannaturali, di potenze divine. Eppure l’uomo è umano solo se produttore di civiltà, di tecnica, della politica: la tecnica di tutte le tecniche, l’arte del saper convivere all’interno di una collettività. Riecheggia così il mito di Prometeo che rubò agli dei il fuoco sacro della téchne per donarlo ad un individuo rimasto fragile nella sua incapacità di sopravvivere a se stesso, alla sua pochezza, alla manchevolezza di cui era stato gravato sin dalla sua nascita.
Tuttavia questa stessa legge imposta da un’umanità divenuta centro della riflessione filosofica, fulcro di una complessità ripiegata non più sulla natura ma sulle dinamiche antropologiche, si va a scontrare con un diritto naturale che appare lontano dalle logiche tiranniche dello strapotere dei pochi sui molti, distante dal nomos del più forte, dalla maschera di cui si ammanta il potere quando assume una veste legale: quella di chi difende l’umile, il vinto.
Quanta somiglianza con chi al giorno d’oggi assume le parvenze di interprete della volontà popolare, della tanto famigerata “sovranità” democratica per appiattire in una terra di nessuno diritti svuotati di significato, di essere, capovolgendoli nell’eristica della seconda sofistica greca.
Quella in cui la verità si riduce ad una landa di sabbia e polvere, a un deserto di essenza e di valore.
Sbiadita in un’oratoria fine a se stessa, sbattuta tra le onde di bocche capaci di dimostrare la possibilità di sostenere di uno stesso argomento opinioni contrapposte, la verità crolla nel bel mezzo di una soggettività che volta le spalle al bene comune, alla civiltà decantata da Protagora. È l’encomio della dissolutezza, la riduzione della politica ad una contesa in grado soltanto di contendere se stessa; è la vittoria della falsa sapienza, quella che millanta giochi di parole soggiacenti il niente. Il sapiente si riduce a falso interprete della realtà, la filosofia si dimena tra paradossi e ragnatele perdendo la sua missione di ricerca, di amore per il sapere.
“Eppure: una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
La strada di una conoscenza senza fine attrae l’uomo di sempre maggiormente di un vicolo cieco. E l’essere ritorna a riflettersi nel pensiero mentre la filosofia si ritrae nel suo folle amore per ciò che manca, verso ciò di cui avverte uno sfrenato bisogno. La lezione Socratica riecheggia tra le vie di Atene, nel bel mezzo dell’agorà, spandendosi senza conoscere regole di tempo e luogo. Il non sapere come monito di perfezionamento indefinito, come barriera che separa l’essere dal non essere, la pienezza dal niente, giunge sino a noi per mezzo della conoscenza di se stessi e, tramite questa, dell’altro. Solamente chi è in grado di RI-conoscersi, di specchiarsi nella luce del proprio demone per poi riflettersi nella ricchezza di differenze mai prossime a finire, nell’alterità di un vicino non così tanto alieno, ha la capacità di pensare, di mettersi alla ricerca del vero. L’ironia, la dissimulazione con la quale Socrate stesso fingeva di accettare le false sapienze dei propri interlocutori, la rete di finzioni che il filosofo edificava a difesa della virtù, conducono al rovesciamento delle proprie convinzioni, degli idola, dei pregiudizi che, come tele di un ragno, avvolgono l’uomo in un reticolo superficiale di false credenze, di inganni.
La ricerca del concetto, della definizione di tutte le cose, di res spogliate dalle loro caratteristiche accidentali, sovrastrutturali consente di demistificare il mondo generando un sapere genuino, autentico. Un sapere “partorito” dalla stessa anima in travaglio, un’anima capace di sopravvivere alla grettezza del vivere. Un’interiorità che esiste nell’alveo della vera scienza: quella della virtù, del bene.
Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono.
“[…] Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appaiano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purchè il dio glielo permetta, straordinario profitto.”
La meraviglia ha il sapore di un sole che, luminoso, avvicina l’individuo ad una dimensione di equilibrata felicità, di armoniosa sinfonia di elementi capaci di emettere una silenziosa musica in cui l’umanità anela il vero senso dell’essere. Di un essere che, pur ritrovandosi, in una continua contesa, nella lotta tra opposti trapassanti l’uno nell’altro, ciascuno ripiegato sull’altro, si riscopre nell’idea di giustizia. Quella dike in grado di conferire veridicità a tutto ciò che è. E il non essere emerge sconfitto nel suo vortice di contraddizioni mentre il tramonto dell’indicibilità lascia il posto alla lucentezza di un reale privo di trappole, di tradimenti, di morte. Ad una realtà che pur non apparendo, si manifesta. Ad un essere che pur non essendo, pur perendo nel riconoscimento della sua essenziale negatività dialettica, è.
“La giustizia non allenta le sue catene e non lascia che qualcosa nasca o venga distrutto, ma mantiene fermamente tutto ciò che è.”
M. UNTERSTEINER, G. REALE, Eleati. Testimonianze e Frammenti, Collana Testi a Fronte, Bompiani, Milano 2011.
PLATONE, Teeteto, 151d- 152e, trad. it di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1971.
PLATONE, Apologia di Socrate, 38a, a cura di G. Reale, Collana Testi a fronte, Bompiani, Milano 2000.
PLATONE, Teeteto, 148e, 149 a-c, trad. it. di M. Valgimigli, Laterza Roma-Bari 1971.
M. UNTERSTEINER, G. REALE, Eleati. Testimonianze e Frammenti, Collana Testi a Fronte, Bompiani, Milano 2011.