Storia

Il mistero dei 3 dadi nello stemma di Carlo V

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Quel grande albero di fico era l’unico superstite dei tanti che, in tempi remoti, nascevano, crescevano e morivano nei pressi delle mura che costeggiavano la strada di “Rosea”. La strada lambiva gli imponenti archi normanni, garanti della stabilità del castello degli Spinelli, principi di Cariati e duchi di Seminara, attraversava il ponte levatoio, la porta di Rosea e si immetteva nella Real Via della Posta nei pressi di Palmi, casale di grande importanza economica per la famiglia feudataria della città della Madonna Nera. Quell’albero, vecchissimo, io lo vedevo sempre lì, aggrappato, come a voler dolcemente abbracciare o proteggere, con i suoi contorti rami, le vetuste mura ovest di quella che, in passato, doveva essere stata una straordinaria opera d’ingegneria idraulica: la fontana di Rosea (Rosìa, XVI sec.).

La fontana è tutt’ora funzionante, con i suoi tre canali d’acqua, riforniti dai rimasugli del complesso sistema di gallerie che fornivano il prezioso liquido, proveniente dalle fonti “Caforchi” e “Soteira” (Vina), alla potente città medievale. Con l’andare degli anni il fico, dimenticato e senza cura alcuna, per resistere agli insulti del tempo, si era inselvatichito, diventando sempre più vecchio e più forte perché aveva perso il gravoso dovere di fornire succosi frutti agli uomini, concentrando tutte le forze nella sua voglia di mantenersi in vita. Le sue radici, se da una parte avevano stabilizzato il sito, offeso da dieci terremoti nel corso degli ultimi 500 anni, dall’altra, infiltrandosi tra le antiche mura, avevano contribuito a causare lesioni profonde tra le stesse. Nel 2009, durante lavori di pulitura del sito, qualcuno pensò di tagliare quel vecchissimo albero, ormai intrecciato con spine e rovi tanto da non dare più respiro alla parete della fontana. Il capo-operaio, assiduo lettore dei miei articoli, corse di gran fretta a cercarmi perché, tolte le sterpaglie, sul nascosto muro, erano apparsi degli affreschi in parte cancellati dalla violenza del tempo. Si accorse, però, che avevano similitudini con le foto che io spesso pubblicavo. Quando arrivai sul posto, bagnai con dell’acqua ciò che era apparso e mi trovai, immediatamente, difronte a più affreschi che ritraevano l’Arma dell’Imperatore Carlo V. Il Vello d’oro, la Borgogna antica, oltre l’Austria e l’Aquila bicefala, rivelavano una Storia Immortale. Chiesi all’assessore regionale, vista la preziosità della scoperta, un intervento urgente di conservazione, che venne realizzato nel 2016 con la messa in sicurezza del sito della fontana di Rosea e dei suoi affreschi.

All’inizio non notai; poi, quando gli entusiasmi della scoperta lasciarono il passo all’osservazione, vidi qualcosa che mi tenne insonne per tante notti. In uno di quegli stemmi, sotto i gigli di Francia, comparivano, in bella mostra, tre dadi con, rispettivamente, due punti neri, cinque punti neri e tre punti neri. Sapevo, da documenti consultati in epoche passate, che in occasione della venuta dell’Imperatore Carlo V a Seminara, il tre novembre 1535, tutti i maggiori edifici pubblici e privati della città erano stati affrescati, in suo onore, con la sua Arma. La fontana, trovandosi in un punto strategico della città, subito dopo la porta di Rosea, era stata decorata tutta. Certo, nei vari simboli che ricordavano la magnificenza di Carlo V, in nessuno erano presenti tre dadi, anche se l’Imperatore era Gran Maestro dell’Ordine del Toson d’Oro, fondato dal nonno, Carlo il Temerario, ultimo Duca di Borgogna. Durante i lavori di conservazione del sito e degli affreschi, studi approfonditi hanno accertato che i tre dadi erano stati aggiunti nel XVIII sec. Perché quei dadi aggiunti? Cosa simboleggiavano? No, non mi ero dimenticato. Mi dicevano qualcosa, ma non riuscivo a collocarne tempo e spazio.

Poi, improvvisa, l’illuminazione. Nella mia prima giovinezza, quando passavamo i lieti giorni della vendemmia a pigiare i grappoli d’uva, a piedi nudi, su scivolose tavole che racchiudevano una grande vasca dove precipitava il mosto dall’odore acerbo come quella terra, compariva sempre “u signorinu”, padrone dei vigneti, vecchio quanto il tempo. Io lo incontravo solo in quell’occasione, ogni anno. L’uomo, elegantemente vestito, perennemente intento a giocherellare con un giornale che teneva tra le mani, raccontava sempre, ogni anno, la stessa storia. Parlava di Domenico Grimaldi, il grande agronomo e di suo fratello, Francescantonio, il filosofo, maestro venerabile, nel 1775 a Napoli, della Loggia massonica “Humanité” di rito francese, lo stesso anno dell’editto con cui Bernardo Tanucci, ministro del Re di Napoli, metteva fuorilegge i Liberi Muratori. Ci raccontava di quando, dopo i moti di Parigi del 27 luglio 1789, sotto la “cappa di piombo”, a Napoli, la Corte Borbonica era stata assalita dal terrore. Il tre novembre del 1789 fu emesso un real editto contro i liberi muratori, individuati come coloro che, per la loro adesione e propaganda alle idee riformatrici di fine Settecento, rappresentavano il maggior pericolo per la stessa sopravvivenza della Casa Reale Borbonica. Paura che aumentò, insieme alla repressione, quando, il 16 dicembre del 1792, comparve nella rada di Napoli, una flotta francese comandata dal “Fratello Latouche-Treville” che diede grande vigore alle attività anti-borboniche della Massoneria.

Domenico Grimaldi, (il fratello Francescantonio era morto nel 1784), si ritirò nelle sue terre, a Seminara e a Reggio Calabria, dove divenne il punto di riferimento della Massoneria calabrese e, soprattutto, fu Gran Maestro coperto della Loggia di Reggio Calabria (Calabria Ultra) dipendente, direttamente, dalla Loggia-madre “Saint Jean d’Ecosse” di Marsiglia. Fu allora che il Re mandò a Reggio il General Brigadiere Giovanni Pinelli che attuò una feroce repressione contro tutti coloro sospettati di appartenere alla Massoneria. Nel giugno del 1797, i Liberi Muratori reggini, dopo l’uccisione di due massoni, decisero di organizzare un attentato alla vita del Brigadiere Generale. Il complotto, conosciuto come “Congiura Logoteta” venne organizzato, nella sua parte finale, a Seminara. Diceva il vecchio “u signorinu”, come se raccontasse una favola ai pargoletti per farli addormentare che, per sfuggire ai controlli serrati della Polizia Borbonica, i congiurati pensarono di confondersi tra l’enorme folla che si recava a Seminara per assistere, il quindici agosto, all’imponente processione della Madonna Nera.

La notte del quattordici agosto 1797, i Liberi Fratelli si riunirono davanti la Fontana di Rosea, protetti da uomini armati e sotto i simboli di Carlo V, Gran Maestro dell’Ordine del Toson d’Oro. Quella sera, si offrirono tre uomini per compiere l’attentato. Per scegliere l’esecutore si ricorse al lancio di tre dadi, secondo l’uso del tempo. Lì, quella sera, i dadi decretarono la sorte del Procuratore del Re, Giovanni Pinelli. Pinelli venne ucciso la notte del dodici settembre 1797, dopo aver assistito ai fuochi durante la festa della Madonna della Consolazione di Reggio Calabria. Fin qui il racconto di quel signore che, negli anni che vennero, scoprii essere stato uno dei massimi rappresentanti della Massoneria calabrese. Certo, quando scoprimmo i dadi ripensai a quel racconto-favola che ascoltavo ogni anno ed ebbi la conferma che, attraverso le narrazioni orali, si possono scoprire grandi verità storiche.

 

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