
Era il 1948 quando il presidente della Repubblica Einaudi esortava alla “conservazione e ricostruzione del suolo contro la progressiva distruzione che lo minaccia”. A 73 anni di distanza da quel proclama, il salvataggio del nostro territorio sembra essersi dissolto nel vento, per dare spazio alla finzione scenica di un P.I.L. che – come scriveva nel 1968 Bob Kennedy – “misura tutto, ma non ciò che rende degna la vita di essere vissuta”. Di questo residuato della seconda rivoluzione industriale ha sempre fatto parte il Ponte sullo Stretto, immancabile volano di sviluppo per l’economia dell’intero Sud. Se non fosse che nel 2017 l’Istituto di Scienze Marine del CNR ha fatto una scoperta decisiva per l’intera vicenda: è stato infatti identificato il sistema di faglie sismogenetiche attive in profondità nel Mar Jonio, comprese tra lo stretto di Messina e l’Etna, in grado di innescare processi vulcanici e sismici di fortissima intensità nell’intera area. Ciò spiega inoltre il lento e progressivo allontanamento della Sicilia dalla Calabria, oltre al sollevamento della costa calabra. E, come se non bastasse, nel maggio 2021 arriva anche la notizia clamorosa della scoperta della faglia sottomarina che rase al suolo Messina e l’intera costa calabra nel 1908, che passa esattamente a sei km dal ponte. Già, i terremoti.
Per la cronaca, nel 1996 il ponte giapponese Akashi-Kaikyom subì un terremoto di intensità 6,8 della scala Richter così violento da determinare l’allungamento dei due piloni di circa un metro, molto meno di quanto potrebbero spostarsi i piloni sul versante siciliano in caso di sisma analogo, visto che nel caso nostro poggiano letteralmente sulla sabbia. Il ponte giapponese ha la stessa struttura a campata unica di quello previsto sullo Stretto di Messina, ma con una luce (cioè uno spazio tra una campata e l’altra) di 1.991 metri, mentre il “nostro ponte” avrebbe una luce di 3.300 metri. Tutto questo a significare due cose quasi ovvie: la prima è che nessuno è in grado di arrestare processi naturali riguardanti il sistema crostale terrestre nell’area dello Stretto di Messina; la seconda è che non esiste alcuna tecnologia costruttiva realizzata dall’uomo in grado di bypassare il processo inesorabile di distacco naturale della Sicilia dal Continente.
Mi chiedo quindi: l’attraversamento dei treni sul ponte, in presenza di una geomorfologia così mutevole dalle parti di Scilla e Cariddi, – ratificato da una sorprendente Valutazione di impatto ambientale nel 2011 – è davvero fattibile? L’ex AD di Ferrovie dello Stato Mazzoncini, ricordava come fosse “strategico e utile per i nostri treni” poggiare i binari sul ponte a campata unica più lungo del mondo che attraversa lo Stretto. Allora perché i giapponesi, che possiedono il ponte più simile a quello di cui si dibatte, e che di tecnologia antisismica applicata al loro territorio ne hanno conoscenza assai profonda, non intendono affatto far transitare i loro treni? Perché nel Paese del Sol Levante, nel nome dell’attuazione pragmatica della mobilità e di infrastrutture sostenibili concretamente realizzate, è stata eliminata anche l’ipotesi del passaggio dei convogli ferroviari sul ponte? La risposta è: perché una struttura ferroviaria che passa su un ponte sospeso rappresenta sempre un problema enorme. Rigidità delle rotaie e deformabilità traversale, insita nella struttura sospesa, non vanno affatto d’accordo, né sulla campata, e ancora meno tra la parte fissa costiera e l’attacco del ponte.
Come se non bastasse, vista la lunghezza record fra le campate, ne deriva un problema insormontabile che taglia la testa: applicando lo stato dell’arte delle conoscenze tecnologiche, è impossibile riprodurre materiali che (ancora) non esistono per questo scopo. In sostanza, la materia di cui si tratta, il ponte sullo stretto di Messina, non è “codificata”, e non esiste sufficiente letteratura scientifica con cui documentarsi ed eseguire raffronti. Se ne potrà riparlare quando si creeranno le condizioni adeguate allo sviluppo dei modelli e dei materiali. Se invece il focus del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) previsto per l’Italia è inteso in direzione di una reale mobilità realizzando infrastrutture sostenibili, perché non chiudere per sempre con la “pratica” del Ponte e investire da subito in collegamenti che vadano ben oltre l’orizzonte indicato dal già obsoleto PNRR, incredibilmente fermo a un’alimentazione dei traghetti a GNL (sposando quindi una visione obsoleta da seconda rivoluzione industriale), per puntare su un tipo di traghettamento con emissioni atmosferiche pari a zero, e di altissima convenienza in termini di costi di gestione?
L’alternativa c’è, funziona perfettamente, e si chiama traghetto a propulsione elettrica. Il progetto nasce nel 2015 in Norvegia, con un traghetto diesel convertito all’elettrico, i cui dati di gestione raccolti due anni dopo sono talmente entusiasmanti da indurre l’azienda per il trasporto marittimo norvegese a dotarsi di altri sette traghetti alimentati solo in modalità elettrica. I dati raccolti da quella prima imbarcazione hanno fatto riscontrare emissioni nell’ambiente ridotte del 95% e costi di gestione contenuti dell’80%. A vantaggio di questa tecnologia la possibilità di stoccare a bordo grandi quantitativi di batterie, ottimizzarne facilmente i consumi, sfruttare rendimenti più elevati dei motori elettrici e soprattutto contare sulla possibilità di ricarica dalla rete elettrica nei momenti in cui la nave è attraccata tra una rotta e l’altra, andando a immagazzinare energia più che sufficiente per coprire i percorsi brevi tipici dei traghetti. C’è un altro aspetto dirimente: la stringente raccomandazione dell’I.M.O.,International Maritime Organization, per cui le imbarcazioni devono iniziare a fare i conti con l’impatto ambientale provocato da una richiesta sempre più energivora e impattante.
Durante l’ultimo vertice internazionale dell’IMO, è arrivato l’ok degli oltre 170 Paesi aderenti alla convenzione ONU a un accordo per ridurre le emissioni di CO2 del 50% entro il 2050, rispetto ai livelli del 2008, puntando a zero emissioni in tempi brevissimi. Per l’Italia, l’esempio potrebbe arrivare da Napoli, il cui porto diventerà il primo del Mezzogiorno a realizzare un’infrastruttura per l’alimentazione elettrica delle navi. Grazie a un accordo tra Autorità di Sistema del Mar Tirreno Centrale, Enel e Compagnia Regionale Marittima (Caremar), i traghetti e le altre imbarcazioni della Caremar approdanti nello scalo partenopeo potranno usare energia elettrica e spegnere i generatori di bordo, minimizzando l’inquinamento acustico e ambientale. Ma l’Italia deve fare decisamente di più sul tema perché ne vale la pena. Non è solo un discorso di eco-sostenibilità, ma anche di business: la società di analisi inglese IDTechEx, nel report “Electric Boats and Ships 2017-2027”, prevede che il mercato delle imbarcazioni elettriche attraverserà una fase di decisa crescita.
È chiarissimo che puntare su mezzi elettrici induce grossi vantaggi. Sempre in Norvegia, ad esempio, il Governo ha deciso di bandire dalla circolazione navale nei Fiordi qualsiasi mezzo non elettrico, dando via libera quindi agli E-ferry. E si chiama proprio E-Ferry il progetto europeo per realizzare traghetti elettrici per lunghe distanze per il trasporto passeggeri, veicoli e merci. Il primo sarà in grado di coprire distanze di oltre 20 miglia marine, ossia circa 37 km, fra una ricarica e l’altra, ben superiore alle tre miglia marine del norvegese Ampere e di altre imbarcazioni oggi circolanti. Ribadisco: la scelta di puntare sull’elettrico per i traghetti non è solo realmente green ma anche economica; con l’E-ferry si attira una fascia sempre maggiore di turismo consapevole interessato alla sostenibilità ambientale. Tutto questo senza intaccare minimamente un delicato ecosistema. È tanto difficile pensare ad una gestione ambientale senza compromessi nello Stretto di Messina?