
di Nino Princi, scrittore
Tracce, vie di fuga, possibili percorsi per l’edificazione di una nuova fedeltà narrativa. Bisogna rimettere in discussione i propri canoni culturali se in qualche modo vuole andare avanti e indossare questo calzino spaiato. Di seguito, evidenzierò un certo numero di trappole narrative esogene ed endogene nelle quali cadiamo, più o meno consapevolmente. Perché va ricordata una cosa: ci sono autori che sono agiti e autori che agiscono. Ci sono autori che commettono dolo e altri che invece si trovano nella scena di un delitto non allestito da loro. Una delle trappole che più mi sta a cuore evidenziare è quella che ho definito la “Sindrome della mosca bianca”.
La Sindrome della mosca bianca
La Sindrome della mosca bianca può essere definita come quella narrazione che tende a evidenziare e valorizzare un elemento positivo, circoscritto geograficamente e culturalmente, caricandolo di tutti i valori nobili che, nel resto della stessa società, si presuppone non vi siano o siano andati persi. La mosca bianca pertanto è un eroe, una pratica, una storia, che emergono candidamente nella loro purezza verginale in un contesto che si ritiene implicitamente disagiato e marginalizzato. Attenzione, la Sindrome della mosca bianca colpisce tutte le culture marginalizzate: Malcom X o Martin Luther King sono stati esempi di mosche bianche. Ma anche Falcone e Borsellino. La mosca bianca, dovendo farsi carico del riscatto di un’intera società, è facilmente soggetta alla logica del martirio. E la storia da questo punto di vista purtroppo lo dimostra. Non interessano in questa sede le narrazioni martirologiche che, per carità, hanno una loro valenza, certo, ma pedagogica. Mi interessa invece evidenziare due punti inerenti a un vizio implicito di tale dialettica. Primo punto: se c’è un eroe che sacrifica la propria vita e il proprio lavoro per portare avanti una buona pratica o una condotta esemplare in una società che esemplare e buona non è, significa che tale società è implicitamente ritenuta corrotta. Non serve scomodare il Galileo di Beckett per capire che ogni volta che un eroe bussa alla porta di una narrazione è perché c’è una situazione da riscattare. Ciò a pensarci bene implica un pregiudizio. Questa logica in Calabria è molto diffusa: Nicola Gratteri è la mosca bianca della giustizia nei confronti di una società mafiosizzata; Mimmo Lucano è la mosca bianca in un contesto che di solito è relegato in una specie di silenziosa tenebra. Mosche bianche, singoli soggetti che con il loro coraggio e il loro esempio, riscattano una terra. Questa pericolosissima dinamica (funesta anche per chi si trova a indossare i panni del martire, perché crea un effetto-parafulmine) non rappresenta altro che l’elemento compulsivo dell’ossessione a ripetere sempre lo stesso discorso. Da un lato un elemento ossessivo e viziato da un determinismo storico, e dall’altro un elemento compulsivo che cerca di trovare una soluzione al pensiero che lo ossessiona, mantenendo però di fatto il circolo vizioso. Come spezzare questa dialettica? A mio avviso, in due modi molto semplici e usando una strategia di ordine tutto cognitivo-comportamentale: smascherare il proprio pensiero rendendolo ridicolmente inutile. Usare un lessico rinnovato, in seconda battuta. Esempio. Nicola Gratteri, Mimmo Lucano, non sono mosche bianche ma sono punte di un iceberg. Le loro ammirevoli esperienze e pratiche non sono dovute soltanto a un imperativo morale, ma al fatto che c’è stato un contesto sociale, politico e culturale nel quale queste figure sono cresciute professionalmente e umanamente. Gratteri e Lucano sono diventate due figure-guida di una certa mentalità di riscatto non nonostante il contesto, ma grazie al contesto in cui operano. È questo il profondo cambio di paradigma che un autore dovrebbe compiere. Faccio un altro esempio: la zona dell’alto jonico reggino, nella quale si trova Riace, ha una lunga tradizione di politiche solidali, se non rivoluzionarie. Caulonia fu una Repubblica comunista, per pochi giorni; a Roccella si sono combattute importanti battaglie in difesa dei contadini. Stignano e Stilo erano i luoghi nei quali Tommaso Campanella, già cinquecento anni fa, ha cullato uno dei più rivoluzionari progetti filosofici della storia occidentale. Il piccolo comune di Camini ha creato delle pratiche impressionanti di economia circolare e di ripopolamento. Si tratta insomma di zone certo problematiche ma con un forte sostrato di impegno civile, politico e filosofico. Solo in contesti così possono nascere figure rivoluzionarie e pratiche innovative. Narrare tali fenomeni come se ci fosse stato un singolo che all’improvviso ha avuto un’idea e piano piano l’ha realizzata, nonostante tutto, è peccato mortale perché non si fa altro che alimentare il pensiero ossessivo di cui sopra. Si spoglia una narrazione della sua carica politica e la si confina, neutralizzandola dolcemente, in una pratica tutta estetica e romantica. Così infatti si nega l’elemento davvero in grado di superare tale dialettica mortificante e subalternizzante, inconfessabile, che risponde all’assunto secondo cui esiste una società perfettamente in grado di cambiare. La Sindrome della mosca bianca è in assoluto uno dei più pericolosi e subdoli tra i fenomeni di diffusione di uno stereotipo narrativo perché ha un apparente elemento valorizzatore che, a ben guardarlo, ci si rivolta contro. Rifuggiamo, vi prego, dalla descrizione dei singoli eroi e concentriamoci sull’humus che li ha generati. Questa manovra ci salverà, e salverà molte vite dalle tenaglie del martirio.
Effetto Barlaam
La seconda trappola che bisogna smascherare quando si parla di narrazioni diversamente calabre è l’effetto Barlaam. Si tratta di un effetto simile a quello della mosca bianca, ma stavolta con un sostrato letterario e culturale anziché politico. Si traduce nel fatto di promuovere figure di grande caratura culturale senza considerare che, perché tali figure possano essere esistite, significa che vi è stato un clima culturale di altissimo livello alla base, cosa che va in direzione contraria alle narrazioni del disagio e della terra disastrata e martoriata. Il caro G. Rohlfs ci aiuta a sviscerare meglio il pensiero. Nel suo bellissimo saggio Scavi linguistici nella Magna Grecia, Rohlfs racconta che nel 1368, a Pavia, un giovane amanuense che Petrarca aveva da poco assunto al suo servizio si recò dal Maestro chiedendogli se poteva dispensarlo dai suoi uffici quotidiani perché sentiva la necessità di recarsi per un periodo a Costantinopoli in modo da approfondire lo studio del greco antico. Come tutta risposta, Petrarca suggerì al suo fedele collaboratore di recarsi in Calabria anziché fino a Costantinopoli, poiché in quella terra lo studio del greco era molto diffuso. Il giovane acconsentì, e Petrarca scrisse alcune lettere a Ugo di Sanseverino, comandante delle milizie napoletane, affinché rendesse più comodo l’Erasmus del suo allievo. Petrarca aveva conosciuto nel 1342, ad Avignone, il monaco calabrese Barlaam e ne approfittò per farsi tradurre Platone dal greco. Tra l’altro, già tra il 1358 e il 1359, Petrarca aveva conosciuto un altro calabrese, Leonzio Pilato, un avventuriero che parlava anche lui il greco come lingua madre, raccomandandolo a Boccaccio. Al di là delle opinioni non del tutto positive che i due trassero dall’incontro con Barlaam e con Pilato, è Petrarca stesso a scrivere di Barlaam, nella celebre Epistola a Nicola Sigerio: “…qui italice natus esset in Graecia” (Ep. Fam. XVIII, 2 – cioè: “…essendo nato nella Magna Grecia”). Non è il caso di dilungarci ancora sulle ulteriori testimonianze che il caro Rohlfs ci porta. Quello che qui ci interessa è sottolineare una cosa evidente ma, per una questione di pregiudizio, mai evidenziata nelle narrazioni mainstream. E ciòè che nella Calabria e probabilmente in altre vaste aree del meridione, la lingua madre parlata dalla maggior parte della popolazione era il greco. E che quindi Barlaam non era una mosca bianca della comunità locale, ma era un uomo cresciuto e allevato in una cultura che, sebbene popolare, poggiava le sue basi su un altissimo e avanzato sostrato culturale. La descrizione, lo studio e l’approfondimento di questi mondi viene sempre considerata una questione tra specialisti. E certo: aprire una finestra su questa realtà significa creare uno squarcio profondo nella narrazione scolastica del Medioevo come il periodo dell’intraprendenza toscana o della nascita dei Comuni (fenomeno tutto presente dal centro Italia in su, mentre già parte del Meridione comincia a divenire, dopo la sbornia federiciana e normanna, la terra del malgoverno angioino e dell’hic sunt leones). Si cita Barlaam anche in questo caso come mosca bianca, tralasciando colpevolmente la parte rivoluzionaria della narrazione, e cioè quella che riguarda una finestra su una forma di Medioevo alternativo alla narrazione imperante.
A questo punto, in medias res, è necessario un chiarimento: le trappole evidenziate riguardano i modi in cui le narrazioni penetrano e si sedimentano nell’inconscio collettivo attraverso un processo di stratificazione culturale e politica secolare. Qui si parla di paradigmi culturali e politici, non di cialtronate complottistiche.
Il turismo civile
Ci sono degli elementi autocritici che riguardano endemicamente la nostra cultura narrativa. Uno di questi è la fortissima provincialità della cultura locale. Reggio, spesso chiusa nella sua roccaforte urbanizzata, dialoga con un tono di stucchevole snobismo con la provincia. Le province dialogano poco tra di loro, dal punto di vista culturale. I flussi di turismo interni, al netto delle dinamiche riguardanti la pandemia, sono molto ridotti. È ora di valicare questi confini. Il fine è quello di acquisire una coscienza tutta calabrese e meridionale, superando stupidi steccati da Calabria Citeriore e Ulteriore. Mi sembra un dato di fatto che i reggini conoscano poco, pochissimo della cultura di Crotone, e viceversa. E che i tirrenici conoscano poco della jonica, e viceversa. Che Cosenza sviluppi le proprie azioni in una torre d’avorio gravitante intorno alla propria università e ai propri confini cittadini. Che Catanzaro e Reggio siano ancora invischiati nelle vecchie acredini dei moti del Settanta. Per non parlare degli stereotipi divoranti che cannibalizzano e dividono due culture ricche e preziose come quella reggina e messinese (e quest’ultimo matrimonio prima o poi s’ha da fare, per il bene nostro e di tutta la santa area mediterranea, quindi è arrivato il momento di cominciare a flirtare seriamente). Fare turismo (ripeto, al netto delle politiche attuali sulla pandemia ovviamente) deve dunque essere un atto civile, oltre che estetico. Per cui, assorbite le istanze del turismo responsabile, è ora di affacciarsi a un nuovo modo di concepire lo svago, disimpegnatamente impegnato. La gelosia e l’invidia sono divisive e le divisioni indeboliscono. Gli effetti del divide et impera sono presenti in ciascuna forza politica e culturale perdente. Il lavoro in questo caso è prevalentemente psicologico e individuale, in prima istanza.
Riportare alla luce il rimosso
Ancora un elemento di carattere endogeno e autocritico. La gran parte delle narrazioni meridionalistiche sono pregne di mentalità autocommiserativa (“la terra martoriata”) ma presentano gravi difficoltà a operare della autoriflessioni collettive. Allora diventa necessario partire da una psicoanalisi collettiva nella quale fare emergere il rimosso calabro e cominciare a parlare di cose davvero raccapriccianti. Per esempio, chissà come avrebbe reagito il commissario (narrativamento inteso secondo il canone camilleriano) quella volta che qualcuno, un calabrese quasi sicuramente, se ne andò in Aspromonte, a Zervò, in pieno periodo dei sequestri e sparò un colpo di pistola al cuore del crocefisso situato in quella contrada? Poche volte ho sentito notizie così scabrose, tanto più se si innestano già in una tradizione che vuole proprio un calabrese, un bruzio romanizzato per la precisione, a prendersi gioco del Cristo (per non parlare della damnatio memoriae attuata dai Romani nei confronti dei Bruzi, ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano). Insomma, al di là delle tradizioni inventate, la fama dell’hic sunt leones ce la siamo meritata, perché a compiere queste cose sono state persone che, proprio per il discorso dei paragrafi precedenti sulle mosche bianche, in questa cultura ci sono nate e cresciute. In altre parole, così come non esistono mosche bianche ma piuttosto punte di un’iceberg che evidenziano la presenza di un sostrato culturale positivo, allora va ammesso anche il contrario: non esiste una monade mafiosa, ma esiste piuttosto un mare all’interno del quale questi pesci nuotano (nulla di nuovo: Gratteri e tanti altri lo vanno dicendo da almeno quindici anni a questa parte). Davanti a questi epifenomeni però, è doveroso assumere una postura culturale e intellettuale ben definita e precisa. A mio avviso, questa postura consiste nel fare emergere il rimosso collettivo in modo da capire che cosa è stata la nostra società, senza simulare narrative autoindulgenti o separative o commiserative. Questa storia di Zervò è emblematica: nessuno la ricorda poiché nessuno la vuole ricordare. Però, se non si inizia a ricordare, non si potrà mai avviare quel processo di disidentificazione con una realtà che purtroppo ci appartiene. Al momento siamo nella fase del rimosso più profondo. Questo è forse il punto più scabroso della mia disamina, ed è un punto che riguarda noi come collettività, non è imputabile a fattori esterni. Superare il trauma, raccontandolo, con più realismo e meno neorealismo. Sottrarre il tema del proprio rimosso ai fautori di una letteratura stereotipante, neorealistica, di alvariana memoria: la terra martoriata, appunto. Perché intendiamoci: se di questi fatti non ne parleranno gli autori calabresi, senza maquillage stereotipante, ne parleranno altri, in termini probabilmente stereotipati. Uno degli esempi più classici dei danni che tale scippo può causare è “Tutti i soldi del mondo”, il film sul sequestro di Paul Getty III, girato da Ridley Scott. Non mi dilungherò oltre su questo film, perché la sua sciatteria estetica e narrativa è tale che non esige particolari didatticismi. Piuttosto, lo suggerisco come esempio da trasmettere nelle scuole di tutta la Calabria, anticipato dallo spot di Muccino come propedeusi, per illustrare le conseguenze nefaste che uno stereotipo può causare all’immagine di una cultura, se iniettato inconsapevolmente.
Il punto è che uno degli scopi più nobili di una sana narrativa è quello di restituire autenticità a una cultura, aiutandola a superare il trauma, che nel nostro caso non è stato completamente superato. A questo proposito vale la pena ricordare alcune cose: fu una donna di Pavia la prima a scuotere il sacro totem dello stereotipo. Quella donna, lombarda, ipercivilizzata, che aveva freddamente introiettato le dinamiche del capitalismo efficientistico industriale e del pragmatismo nordico, si prese un treno e se ne venne nella terra dei leoni. Qui, si comportò come una Madonna barocca, perpetuando tutti gli schemi del melodramma tragico napoletano che precede la Santità: le catene, i pianti, la pietà, il sacrificio, la sfida aperta e disarmante nei confronti del Maligno. Non aveva armi, non era come i reparti speciali che setacciavano l’Aspromonte armati fino ai denti e tuttavia insicuri. Quella donna, ribaltando uno stereotipo e incarnandone l’opposto, ha senz’altro contribuito a scuotere le coscienze e a fare in modo che l’opinione pubblica cominciasse a rendersi consapevole del fatto che quei silenzi collettivi erano complicità. Cioè catene. Alla fine, le azioni di quella donna hanno contribuito a salvare il figlio e ad aprire una nuova consapevolezza nell’opinione pubblica locale. Il lavoro va continuato, ed è compito di una ecologia narrativa farlo, raccontando le storie rimosse senza indulgenze e senza strategie narrative da romanzetto di genere.
Potenza degli stereotipi quindi, e del loro ribaltamento.