
In Calabria non abbiamo mai difettato di giudizi pessimistici su noi stessi e di spirito autoassolutorio. A dire il vero, col secondo abbiamo anche esagerato in oltre un secolo e mezzo di convivenza col resto del Paese. E, spesso, nel dare la colpa agli altri, al sistema, a quelli del nord, ai Savoia, abbiamo finito per non distinguere più condizioni oggettive e responsabilità soggettive a proposito del nostro stato di perenne arretratezza.
Nondimeno, sia il modo in cui si è fatta l’Unità d’Italia che le successive scelte di politica industriale compiute dai governi post-unitari hanno avuto il loro peso nella strutturazione dualistica del Paese. Due Italie, due economie, due modi diversi di guardare all’Europa. Con la Calabria ultima nella metà più disgraziata. Un Pil pro-capite che è meno della metà di quello della Lombardia e un tasso di occupazione al 42%, 15 punti sotto la media nazionale. Come se i progressi della politica di “convergenza” degli anni Cinquanta e Sessanta non ci fossero mai stati. C’entra la riduzione degli investimenti statali (e il dirottamento di una parte di essi verso il nord), certamente. Tra il 2008 e il 2018 la spesa pubblica per in vestimenti nelle regioni del Sud si è ridotta della metà, o anche più, passando da 21 a 10 miliardi. Ma c’entrano anche gli inconvenienti della regionalizzazione dei programmi di sviluppo, a cominciare da quelli finanziati con fondi europei. Meno soldi e quelli a disposizione spesi male o, addirittura, non spesi; la Regione sempre più un centro di spesa inefficiente, preda del malaffare, permeabile agli interessi della criminalità organizzata. Le conseguenze? Una fuga silenziosa, inarrestabile. In 10 anni sono andati via dalla Calabria ben 300 mila persone. Paesi e territori che si spopolano, un’economia che perde i quadri più attivi, istruiti e professionalizzati della società. E per il prossimo futuro la prospettiva di diventare la regione del Paese con la più alta concentrazione di anziani. Una landa economicamente ed umanamente desertificata in un’Italia sempre più divisa in due.
La pandemia sta aggravando questa situazione. Nel Mezzogiorno e in Calabria sta picchiando più duramente che altrove. «II Covid-19 non è stato una “livella”, non ha reso tutti un po’ più poveri ma più uguali. La crisi seguita alla pandemia è stata un acceleratore di quei processi di ingiustizia sociale in atto ormai da molti anni che ampliano le distanze tra cittadini e territori», si legge nel Rapporto 2020 della Svimez. La crisi sanitaria che va ad impattare su ritardi storici e mali endemici. Col rischio che l’allargamento della forbice tra nord e sud rinfocoli pulsioni separatiste nelle aree del Paese più sviluppate e più integrate nelle filiere produttive europee e globali (lo spettro dell’autonomia differenziata aleggia ancora sul Paese).
Eppure, proprio questa crisi pandemica potrebbe essere foriera di nuovi impulsi per la ripresa del processo di convergenza tra le regioni ricche e quelle povere. Dopo gli anni infausti dell’austerità ad ogni costo, in Europa si sono riaperti i cordoni della borsa. Gli Stati fanno debito sotto l’ombrello protettivo della Bce, Bruxelles lancia programmi di ripresa finanziati autonomamente con risorse reperite sui mercati. Non è la fine dell’Europa neoliberista, ma un passo avanti rispetto al recente passato sì. Il problema, pertanto, non è quanti soldi abbiamo – invero, ne servirebbero molti di più per compensare la caduta del Pil nell’ultimo anno -, ma come questi soldi verranno spesi. Saranno impiegati per far ripartire il motore economico del nord o per accorciare le distanze tra nord e sud nel quadro di una nuova mission economica del Paese? Nel secondo caso, oltre ad investimenti per colmare il gap infrastrutturale del Mezzogiorno (reti stradali, ferrovie, infrastrutture portuali e autostrade del mare), servirà un nuovo ruolo imprenditoriale dello Stato. Non una replica delle “cattedrali nel deserto”, beninteso, ma una rinnovata funzione strategica del capitale pubblico, da esplicarsi nel quadro di nuova programmazione economica nazionale.
In questo modo, il Sud, e la Calabria in particolare, potrebbero essere non solo la sede d’elezione di un’intrapresa pubblica in settori altamente innovativi e tecnologici (farmaceutica, biomedicale, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tecnologie applicate al marketing dei prodotti turistici), capace di offrire know how alla manifattura più tradizionale del nord, ma anche un anello imprescindibile della catena del valore nazionale ed europeo. Un Sud con una sua specializzazione produttiva, per un’Italia più competitiva nel Mercato unico e nel nuovo scenario internazionale che ci lascerà in eredità la pandemia.
Ma perché questo accada, non basta affidarsi al buon cuore di Mario Draghi. C’è bisogno di una iniziativa dal basso. E di spirito propositivo, mobilitando saperi, competenze, energie intellettuali. Di fatalismo ed autocommiserazione continueremo solo a morire.