
La battaglia di Seminara del 28 giugno 1495 fu una tra le più importanti combattute nell’Italia Meridionale. Le strategie e le tecniche di guerra messe in campo dai due eserciti nemici, quello francese e quello napoletano-spagnolo, divennero materia di studio nelle più prestigiose Accademie Militari d’Europa. La vittoria che arrise ai Francesi sulle sponde del Petrace fu effigiata in un grande dipinto del XIX sec. conservato nel Musée de l’Armée a Parigi. L’antefatto che scatenò la guerra fu la discesa in Italia di Carlo VIII d’Angiò, potente Re di Francia, che intendeva, così, deporre dal Trono di Napoli gli Aragona riprendendosi il Regno che considerava suo, per diritto ed eredità, fin dai tempi in cui gli Angiò avevano scacciato gli Svevi dall’Italia Meridionale.
Entrato a Napoli il 22 febbraio1495, Carlo VIII costrinse alla fuga il Re, Ferrante II d’Aragona che, con tutta la Corte, si rifugiò a Messina dopo aver invocato l’aiuto dei suoi potenti cugini, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, regnanti di Spagna. Aiuti che arrivarono con un corpo di spedizione composto da circa tre mila uomini tra fanti e cavalieri, soprattutto veterani spagnoli che avevano partecipato alla Riconquista di Granada nel 1492, al comando di un valente Generale, Consalo Fernandez da Cordova, il Gran Capitan. L’armata spagnola giunse a Messina il 24 maggio del 1495. Unitasi all’esercito napoletano, guidato dal Re in persona, Ferdinando II, detto Ferrandino, ai primi di giugno del 1494, le due Armate sbarcarono sulla costa Calabra e marciarono sulla roccaforte di Seminara, snodo militare strategico posto sulla Via Popilia, dove si acquartierarono. Il 27 giugno del 1495, i due eserciti uscirono da Seminara e si dispiegarono, in battaglia, lungo la riva sinistra del Petrace.
L’alba che si levò quel 28 giugno seppe di tragedia. Il sole si rese insopportabile fin dal mattino. Quel caldo soffocava perché non trovava sfogo, imprigionato com’era tra le alte montagne dell’Aspromonte e il mare di Oreste. Il fiume, non carico perché le sue acque si erano dissolte in vapore, sembrò di colpo, fermarsi, quasi vagabondo e sonnolento sul ghiaioso piano tra acquitrini, pozzanghere, raccolte melmose e paludi. Eberardo Stuart d’Aubigny, conestabile di Napoli, era il Comandante dell’esercito francese nella piana di Seminara. Il Maresciallo di Francia s’accorse, subito, di trovarsi di fronte un esercito che nulla avrebbe potuto contro il suo, ordinato e disciplinato. Rafforzato da truppe francesi, al comando di Francois D’Allegre, signore di Percy, che aveva portato con sé i terribili picchieri svizzeri, di stanza in Basilicata. D’Aubigny, schierò la sua Armata sulla riva destra del fiume. Ferrandino, che amava paragonarsi al generale romano Marcello, alle dieci del mattino del 28 giugno 1495, quando ancora è lontana l’ora calda che fa cantare le cicale, diede l’ordine d’attacco.
L’Esercito spagnolo-napoletano era così schierato: a sinistra, si dispose la fanteria, composta da circa seimila uomini, di cui duemila spagnoli. All’estrema destra si collocarono trecento cavalieri Jinetes. Un po’ più al centro, e alquanto arretrati, si trovavano cinquecento uomini d’arme Napoletani, a protezione di Ferrante. Consalo Fernandez da Cordova, su un magnifico cavallo bianco e con la medesima armatura da combattimento che aveva indossato durante l’assedio di Granada, guidava la fanteria spagnola, collocato tra i cavalieri del Re e la restante fanteria napoletana.
D’Aubigny, febbricitante e debole a causa di un attacco di malaria, posizionò ben quattrocento Gendarmi, pesantemente corazzati e ottocento soldati di cavalleria leggera sul lato sinistro del suo schieramento, di fronte alla cavalleria spagnola. Al centro, c’erano seimila fanti, tra cui mille e seicento picchieri svizzeri e arcieri guasconi, al comando del giovane Précy, disposti su tre file e con picche lunghe diciotto piedi. Chiudevano il suo schieramento, proteggendolo sul lato destro, altri trecento gendarmi.
D’Aubigny diede l’ordine di battaglia e le batterie dei suoi cannoni, schierate sulle alture di San Leo, incominciarono a sparare. La potente Gendarmeria francese iniziò un movimento sull’ala sinistra, guadando il fiume senza difficoltà e caricando l’ala destra di Ferrante. I Jinetes spagnoli, lì situati, pensando, con sprezzo, di aver di fronte guerrieri simili ai Mori e non altro, caricarono lanciando i loro giavellotti, inutili, contro le corazze francesi e ritornarono indietro per riorganizzarsi. Diverse volte avevano utilizzato questa tattica sotto le mura di Granada ed era stata vincente. Ma Granada era terra lontana dalla piana di Seminara, tanto quanto lo erano, tra loro, le tecniche di combattimento dei due eserciti. Nulla poté fermare la Gendarmeria Francese. All’ennesima ritirata, dopo quattro ore di battaglia, con un solo infuocato che rendeva tutto più difficile, i fanti napoletani e spagnoli pensarono che i Jinetes si fossero messi in fuga e che i francesi avessero rotto il fronte sinistro. Scapparono, spogliandosi di tutto ed esponendo, così, il campo napoletano- spagnolo alla disfatta. I gendarmi dilagarono, distruggendo i Jinetes e, quando si mossero i picchieri, nulla rimase dei Rodeleros e dell’Armata napoletana. La Guardia del Corpo di Ferrandino venne quasi tutta sterminata ma riuscì, comunque, a salvare da morte certa il Re, come raffigurato nel grande quadro esposto a Parigi. Consalo Fernandez da Cordova, in quella battaglia subì l’unica sconfitta della sua vita. Ferito di striscio ad una spalla dalla punta di una picca svizzera, riuscì a sfuggire alla morte nascondendosi tra gli acquitrini che circondavano Seminara e che gli procurarono la malaria che lo porterà alla morte nel 1516. Da quella posizione, al calar della notte, vide le rive del Petrace incendiarsi. Erano i falò con cui i Francesi bruciarono i loro morti per non lasciarli in pasto agli animali selvatici come successe ai caduti napoletani e spagnoli. Vide poi il dramma dei prigionieri: chi tra di loro era ricco e aveva famiglia che poteva pagare il riscatto veniva risparmiato; chi invece non aveva questa possibilità veniva fatto inginocchiare e decollato. Questa drammatica usanza lo sconvolse, tant’è vero che quando ci fu la battaglia del Garigliano, prima dello scontro, fece un accordo con il generale francese, il comandante in capo, con il quale si stabilì che comunque i prigionieri non andavano uccisi: per la prima volta fu affrontato il tema del trattamento dei prigionieri di guerra. Ad ogni modo, sulla piana del Petrace, i Veterani di Granada trovarono indegna morte e il Gran Capitan iniziò la sua epopea che lo portò, nel 1503, a sbaragliare le armate francesi proprio sul Garigliano e conquistare il Regno, fondando il Vice-Reame di Napoli.