
Bisogna ammettere che, nella contemporanea scena ecclesiale italiana, la presenza laicale continui a essere una questione non opportunamente affrontata e di conseguenza non pienamente risolta. Ci troviamo infatti di fronte a un vero e proprio nodo teorico e problematico, che suggerisce a tutto campo una rinnovata riflessione – sul fondamento di principi non solo teologici, ma anche antropologici – capace di evitare talune generalizzazioni e semplificazioni del passato. Sembra sia più propriamente possibile cogliere un persistente indebolimento dell’identità, che porta non pochi fedeli a perdere di vista – nonostante il magistrale rinvio, innanzitutto, alla dottrina del Concilio Ecumenico Vaticano II – la peculiarità della vocazione nell’ambito dell’esperienza pastorale, come pure nei più ampi orizzonti della vita sociale, culturale e politica. Appare per tutto ciò importante non isolare l’argomentazione, ma sforzarsi d’includerla nella più ampia e moderna visione di una Chiesa desiderosa di chiedersi se i laici e le laiche siano da considerare il suo soggetto o il suo oggetto. Si tratta di una prospettiva che ha evidentemente a che fare con i processi di maturazione critica della coscienza, dalle cui incoraggiate disposizioni di apertura dipendono le ragioni testimoniali capaci d’incarnarsi nelle dinamiche storiche e sociali, per una realizzazione più incisiva delle linee presenti e future dell’agire cristiano. La sfida è tra l’altro quella di problematizzare taluni discutibili assetti, che incoraggiano a restare estranei alle proprie specifiche responsabilità, mentre tendono a ricercare un ambivalente ruolo ecclesiale che ingenera le forme di ritirata dall’impegno nel mondo.
Eloquenti a questo proposito sono le parole di don Primo Mazzolari, che identifica la clericalizzazione come “la sostituzione della mentalità propria del sacerdote a quella del laico, creando un duplicato d’assai scarso rendimento”. Si tratta a ben vedere di un fenomeno che appare ancora oggi piuttosto sottovalutato, in modo particolare nella sua intrinseca insidiosità, condizionante quel cammino della “Chiesa in uscita” a più riprese auspicato da Papa Francesco. Del resto questa distorsione spirituale e culturale mortifica la precipua vocazione, poiché depotenzia lo slancio della chiamata a essere lievito, prendendo parte viva a una più corresponsabile e decisionale partecipazione alla missione della Chiesa. Ha pertanto ragione lo stesso Santo Padre, quando osserva: “Dobbiamo vincere questa tentazione. Il laico dev’essere laico, battezzato, ha la forza che viene dal suo Battesimo. Servitore, ma con la sua vocazione laicale, e questo non si vende, non si negozia.
É un buon laico? Che continui così e che cresca così.
Perché ne va dell’identità dell’appartenenza cristiana, lì. Per me, il clericalismo impedisce la crescita del laico.
Non ci sarebbe il clericalismo se non ci fossero laici che vogliono essere clericalizzati”. Forse anche nelle nostre realtà è tempo di riappropriarsi più audacemente dell’argomento, riscoprendo l’ampiezza concettuale e prassica dell’essenziale “indole secolare”, che si lascia riassumere nella condizione di essere competentemente implicati nella complessa temporalità delle vicende storiche, “ordinandole – ovviamente – secondo Dio”. Quanto detto comporta l’evidente necessità di riflettere anche sul dialettico rapporto con i ministri ordinati, la cui presenza è unica, necessaria e insostituibile. Una condizione indubbiamente basilare della vita della Chiesa, questa, che tuttavia risulterebbe ulteriormente feconda se contestualizzata più chiaramente all’interno di una logica comunionale.