
Lampedusa, un’isola sospesa tra l’isolamento e l’ondata di migranti
di Matteo Arrigo
L’aria nella stanza è immobile. Sono le ventitre e trenta di una calda notte di fine maggio, il levante per settimane ha tormentato l’arcipelago delle Pelagie, da qualche giorno ha smesso di spirare. Vibra il cellullare, il suono sul legno del comodino mi fa trasalire, apro il messaggio: “sbarco in corso al molo”. Il collega della Rai mi segnala un nuovo arrivo, salto dal letto, salgo sulla bici e comincio a pedalare. Via Roma è deserta, dalle ventidue l’isola è sotto coprifuoco, attraverso l’insenatura del Porto Vecchio, in faccia l’odore della salsedine. Il molo Favaloro è una zona militare inaccessibile alla stampa, mi arrampico su una cancellata e mi ritrovo su un tetto. A bordo di una motovedetta della Guardia di Finanza barcollano delle figure umane, due lampeggianti blu tagliano il buio silenzioso. Coperte termiche, lamenti. A mettere piede sul molo sono molte donne con i figli, una bambina tiene un coniglietto di pelouche stretto a sé. Comincia a circolare qualche notizia, anche questo sbarco ha seguito il solito copione: la “nave madre” si porta poco oltre i confini delle acque territoriali libiche, carica i disperati sui gommoni e si allontana. Non ci sono navi delle Ong in mare a soccorrerli, le ultime sono state fermate dalla quarantena, le altre dalla legge. Gli unici presenti sono le motovedette militari italiane e i pescherecci. Il gommone viene svuotato e lasciato alla deriva. Ma non sempre il copione va liscio così, nel pomeriggio era stato segnalato un natante con cento migranti a bordo, di cui però si sono perse le tracce. Altri relitti, altri corpi in fondo al mare. Un’altra notte di ordinario orrore a Lampedusa.
Al mio arrivo guardavo l’isola dall’alto avvicinandomi con il piccolo aereo a elica.
Barcollante, instabile, malferma. Chi da ragazzo ha lavorato come “manovale” in un cantiere, sarà passato tantissime volte sul cosiddetto “tavolone”: un asse di carpenteria di circa quattro metri poggiato ai due estremi per superare un fossato, uno scavo. Serviva a portare il materiale in maniera più veloce sul luogo di costruzione. Traballava sotto una carriola piena di cemento, si piegava al passaggio di un carico di mattoni. Un ponte sospeso e temporaneo, un passaggio di fortuna, fondamentale però per portare avanti i lavori. La casa veniva su anche grazie all’uso di quella tavola. Lampedusa dalla forma allungata, un affioramento di terra completamente piatto, senza rilievi, mancante di colline. Un ponte in mezzo al Mediterraneo fra l’Africa e l’Europa. Il “tavolone” che tutti i migranti vorrebbero e devono attraversare per poter costruire la propria casa al di là del mare. Ci arrivano dopo aver attraversato il deserto, la distesa del Sahara, migliaia di chilometri di sabbia rovente. Sulla costa li attendono le gabbie libiche, i campi in cui si aspetta la partenza. Fame, aguzzini, stupri, coltelli, violenze, torture. Arriva così il momento del barcone, il momento più difficile, come se tutto quello già vissuto non lo fosse stato. Alcuni di loro non lo hanno mai visto il mare, chi ha la forza e la fortuna di farcela sbarca a Lampedusa, un enorme tavolone traballante. I lampedusani ci vivono tutto l’anno su questa terra in mezzo al mare, anche nel pieno dell’isolamento invernale, quando nemmeno i migranti spostano l’attenzione del mondo su questo arcipelago. Miriam lavora al banco di un bar in via Roma, sta servendo dei caffè a dei finanzieri: “Qui non sentiamo il peso dei migranti, qui ci transitano solamente. I nostri problemi sono altri, come la difficoltà a poterci curare. L’ospedale dell’isola è l’aeroporto”.
La banchina del porto Nuovo è animata dalle faccende del primo mattino, i pescatori sono rientrati da poco dalla battuta di pesca notturna. Qualcuno è già al lavoro per ricucire le reti. Si è pescato a strascico: seppie, calamari, totani: “Se peschiamo un tonno ci arrestano, a noi non è concesso, l’Europa non ce lo permette. Oggi abbiamo scaricato venti casse di polpi, le spese sono tante, per mantenerci siamo costretti a pescare tutta la notte”. Coriacei, a volte duri, pazienti, spesso diffidenti. Ascoltatele le storie di questi isolani, perché sono sempre pronti ad accoglierti con il cuore. A offrirti un passaggio, a non farti pagare l’affitto della bici, a invitarti a tornare a casa loro. Non piove spesso a Lampedusa, e quando piove cade acqua e sabbia. Una fanghiglia giallastra, una pastura che asciugandosi lascia su ogni cosa uno strato sottile di polvere. Tetti, auto, tavoli, tombe. Alfonso, Ezequiel, Pietro, Esath, non identificato. Nato e morto a Lampedusa. Nato in Nigeria e morto in mare. Ritrovato senza vita al largo di Capo Ponente. Al cimitero i nomi dei lampedusani si affiancano a quelli di chi sulla terra ferma è giunto cadavere, dove vi è arrivato in un sacco di plastica. Alcuni di loro riposano oggi nel locale cimitero, resteranno per sempre in quella landa tanto sognata assetata dal sole. Ha piovuto questa notte, ha piovuto come piove a Lampedusa, acqua e sabbia. La sabbia del deserto. La polvere colora il marmo bianco. Il Sahara attraversato per giungere su questa terra traballante, copre oggi la loro lapide.
Da gennaio a maggio 2021, 500 persone sono morte sulla tratta verso l’Europa, dal 2014 al 2020, circa 16 mila persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo centrale. Ascoltatele le storie dei migranti se non vogliamo che l’isola muoia insieme a loro, date retta ai racconti dei lampedusani se non volete lasciarli ancora più isolati, perché non si ricordi di questa terra solo durante gli sbarchi, perché servirà a rendere più stabile questo “tavolone” in mezzo al mare fra l’Africa e l’Europa.