
I pachtwork lessicali sono indice di un relativismo culturale molto pericoloso, perché ogni forma di relativismo è intrinsecamente debole e quindi subalterna all’ideologia dominante. Un esempio emblematico è quello del termine southworking. L’antropologo Vito Teti ha speso pagine e pagine per parlare della nobiltà del concetto di νόστος, cioè del ritorno a casa. Adesso questo concetto è stato masticato in chiave neocapitalista e iperdinamizzata e rivisitato in un nuovo termine. Per la verità la pratica del southworking non riguarda solo chi ritorna nella sua terra di origine, ma anche chi proviene da altri posti e decide di vivere a sud.
L’idea è sempre la stessa, e basta completare l’enunciato per rendersene conto: lavorare da sud, implicitamente, ma per il Nord, cioè sempre in funzione dello stesso sistema, cioè quello capitalistico a vocazione settentrionale. Questo mortificante slittamento di significato avviene sotto i nostri occhi, quotidianamente. Il concetto di nòstos in Teti è infatti fortemente legato al ritorno a casa, al rimettere radici dell’eroe inscenando un atto di grandissimo eroismo. Attenzione a queste declinazioni. Nel concetto di southworking è invece implicita una specie di ora d’aria che si dà al lavoratore: si allentano un po’ le catene in modo da farlo riprendere fiato, ma il padronato capitalistico è sempre nell’asse Roma-Milano. Il nòstos invece è il reinizio di una nuova condizione di vita nel posto in cui si è nati o che si sente come casa. Quindi anche il concetto di southworking nasconde dinamiche implicitamente discriminatorie che portano acqua al mulino del capitalismo sfrenato, velate però dalla freschezza del restyling à la page che tanto piace agli intelletti più intontiti e urbanizzati. Anche qui un rifiuto di un significato altro e tutto mediterraneo del concetto, rifiuto giustificato dal potenziale rivoluzionario che il concetto di nòstos detiene, e da una spoliazione: rinominiamo una pratica in modo diverso in modo da rimuovere nell’inconscio collettivo il significato rivoluzionario di cui quella pratica è portatrice. Se southworking venisse tradotto con “ritorno a casa”, probabilmente verrebbe fortemente ostracizzato: lo schiavo deve stare pur sempre vicino al suo padrone. Che cosa fare dunque, quali gli antidoti? A parte una pratica individuale di costante rinominazione, che forse lascia il tempo che trova a meno che non sia operata dentro il flusso massmediatico, l’antidoto è rinforzare la conoscenza di tali pratiche attraverso un lavoro di scavo culturale. In questo caso, la scuola ha un ruolo fondamentale.
Si tratta di lavorare sia su un recupero della propria cultura onomastica, visto che le più importanti sedimentazioni storiche risiedono, almeno in larghe aree della Calabria, nella toponomastica locale, sia di riappropriarsi della conoscenza di pratiche iniziate da tante persone che in Calabria hanno sperimentato conoscenze nuove e rivoluzionarie (certo dopo avere studiato la storia politica del luogo in cui si abita). Suona davvero strano come, nella regione in cui vivono tra le più numerose comunità linguistiche e culturali d’Italia (valdesi, arbëreshë, grecanici per citarne alcune), c’è poca condivisione didattica delle stesse pratiche e delle stesse lingue di queste culture, mentre si è pronti voracemente a consumare un inglese primitivo, depauperato, svilito. In questo modo si continua a cadere nella ridicola trappola della presunta modernità dei termini anglofoni, che però sono semanticamente orientati in una direzione economica e produttiva in cui il sud (e in questo caso l’Italia intera; “sud” del mondo occidentale) è sempre in una posizione subalterna. È una storia vecchia ma evidentemente attuale: Il lessico è intriso di ideologia.
Va da sé che questo lavoro di autoconsapevolezza, oltre che alla scuola – che in questo caso, ripeto, è strategica – spetterebbe anche a gran parte degli operatori culturali, se davvero hanno a cuore il tema della riappropriazione della propria cultura e se davvero, una volta per tutte, sono disposti a responsabilizzarsi sull’importanza che le parole che usano hanno nel mondo che abitano, anziché farsi pascere di parole altrui.