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L’esecuzione della pena e la sua nuova realtà

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Nel pianeta dell’esecuzione della pena un ruolo fondamentale è quello interpretato dai Funzionari di Servizio Sociale degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (U.E.P.E); questi professionisti del Ministero della Giustizia si misurano, ogni giorno, con le dinamiche delle persone che si trovano a scontare una pena sul territorio, fuori del carcere, ovvero con quei soggetti condannati che possono beneficiare di una delle misure alternative alla detenzione o della messa alla prova a seguito della commissione di un illecito. Il ruolo fondamentale degli U.E.P.E. è stato rivisitato e rivalorizzato a seguito del Regolamento di riorganizzazione del Ministero della Giustizia, entrato in vigore a partire dal 14 luglio 2015. In questa operazione di restyling si è operata l’unificazione dell’esecuzione penale per adulti e per minori sotto la nuova Direzione Generale per l’Esecuzione Penale Esterna e di Messa alla Prova, costituita presso il nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità.

Questa nuova struttura dipartimentale della Giustizia è suddivisa in Interdistretti; è proprio in uno di questi che opera il nostro ospite. 61 anni, dirigente penitenziario da 16, in precedenza direttore di servizio sociale, Emilio Molinari, cosentino, è dal 2016 il Direttore Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Calabria. Nei quasi 30 anni di servizio ha diretto diversi Uffici, Verona, Pavia, Brescia, Cosenza, Reggio Calabria, Catanzaro, Cagliari e Sassari.

Direttore come nascono gli Uffici Esecuzione Penale Esterna?

«Gli Uffici Locali dell’Esecuzione Penale Esterna (U.L.E.P.E. ex C.S.S.A.) sono Uffici periferici del Ministero della Giustizia, nati sotto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal 2016 a seguito della riforma del DPCM 84/2015, inseriti nel nascente Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Nascono con la legge di riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 e segnano l’inizio della c.d. Probation italiana. La Probation nei paesi anglossassoni ha ormai più di 120 anni, è un sistema di esecuzione delle pene all’esterno del carcere. A differenza degli istituti penitenziari, gli U.E.P.E. sono competenti – tranne eccezioni previste dalla normativa – sui soggetti in esecuzione di pena (intra ed extramuraria); coloro che, da liberi, chiedono di scontare la pena in misura alternativa alla detenzione; coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza detentiva e non (liberi vigilati) e persone sottoposte a sanzioni sostitutive e, novità dal 2014, gli imputati che chiedono la messa alla prova. In buona sostanza i compiti degli U.E.P.E. possono essere così riassunti: fornire, insieme ad altri soggetti istituzionali (operatori penitenziari, Ser.D., servizi psichiatrici, consultori, volontari, associazioni, forze dell’ordine ecc) alla magistratura di sorveglianza il proprio contributo utile per poter valutare se sia concedibile o meno una misura alternativa alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare e altre misure); seguire, aiutare, orientare, sostenere i soggetti in misura alternativa alla detenzione, riferendo periodicamente al nostro committente principale (la Magistratura di Sorveglianza) sull’andamento stesso della misura; fornire utili informazioni socio-familiari agli altri U.E.P.E. d’Italia, nel caso di detenuti ristretti in istituti penitenziari che sono al di fuori della propria competenza territoriale; proporre alla magistratura ordinaria i programmi di messa alla prova per gli imputati e segue la prova».

Cosa è cambiato concretamente per voi con la riforma del DPCM 84/2015?

«Gli Uffici erano collocati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dipendevano territorialmente dai Provveditorati regionali. Ora sono stati istituiti gli interdistretti che hanno preso il posto dei provveditorati e coordinano gli Uffici Distrettuali e Locali del territorio di competenza, anche se non più in maniera rigida, ma funzionale e, mi si passi il termine, moderna. Gli Uffici con quello di Catanzaro, che dirigo ed è interdistrettuale, in Calabria sono cinque e coprono tutte le province, appunto per dare un servizio di prossimità. In Calabria abbiamo circa 100 unità di personale tra funzionari di servizio sociale amministrativi, contabili e polizia penitenziaria».

I numeri dell’Ufficio da lei diretto quali sono?

«Nell’interdistretto della Calabria operano, come detto, circa cento unità tra civili e polizia penitenziaria. Quarantotto sono assistenti sociali. Le restanti risorse umane garantiscono il funzionamento aree: quella di servizio sociale, con la propria segreteria tecnica e la gestione dell’archivio; quella contabile e quella della segreteria generale e del personale. Circa i Nuclei di Polizia Penitenziaria appena costituiti, il comandante interdistrettuale Domenico Montauro, dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, fornirà maggiori e più puntuali ragguagli sui loro compiti e per come si sono inseriti negli U.E.P.E. Un dato quantitativo sul “carico” di lavoro è quello relativo al 2020 nell’interdistretto: abbiamo seguito circa 5.000 posizioni, un numero importante».

La solita diatriba tra sostegno e controllo come si risolve?

«Dobbiamo pensare ed agire professionalmente tenendo presente che le azioni per sostenere prevedono azioni che sono inevitabilmente orientate anche al controllo sociale dei comportamenti, degli stili di vita, dei soggetti con il quale interagiamo. In sintesi: non è possibile sostenere in modo neutro. È sempre un “sostegno orientato”, perciò una gestione del controllo nel sostegno».

Le misure alternative alla detenzione sono realmente efficaci?

«Sì, lo sono, lo dicono le statistiche sulla recidiva: 80% nelle misure alternative contro il 43% della detenzione. Sono misure efficaci se si riesce a pensare che gli utenti non “sono tutti uguali” ma, al contrario, sono tutti diversi. Etichettare è un grave errore per qualsiasi operatore sociale. È una visione che porta all’immobilismo. Non è possibile pensare a un’ipotesi di reinserimento sociale, con la partecipazione attiva del soggetto in misura alternativa alla detenzione, se si è convinti, che non v’è possibilità di cambiamento. Occorre convincersi che la prima risorsa da mettere in campo è la professionalità dell’operatore e puntare alla individualizzazione dei programmi trattamentali per ottenere un reinserimento sociale pieno».

Secondo lei è possibile ridurre la recidiva?

«È possibile ma occorrono investimenti in termini di risorse sociali ed economiche e di tempo. Non si raggiungono risultati a costi zero e in tempi brevi. È un lavoro di prevenzione primaria e non secondaria, come viene percepito ora il lavoro sulla recidive. Occorre intercettare il “malessere” sociale prima che esploda in reato, e conseguentemente in esecuzione penale. Solo così la recidiva verrà significativamente abbassata».

In copertina: “Allegoria della Giustizia”, affresco di Domenico Muzzi sulla volta di una sala privata del Palazzo Dalla Rosa Prati (Parma, 1790 ca). Cortesia della famiglia Dalla Rosa Prati.

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