Narrativa

San Ferdinando

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Piano piano però i tempi cambiano e con l’arrivo della Belle Époque i Nunziante sono costretti a fare i conti con altri proprietari che nel frattempo vendono le loro terre per creare spazi da edificare. Luigi, sempre lui, sfruttando i suoi poteri di sindaco di Rosarno, fa di tutto per mandare a monte l’edificazione di nuove abitazioni, mandando le guardie comunali un giorno sì e l’altro pure a creare impicci. Si concede persino il lusso di giocare apertamente con la toponomastica e fa rinominare ufficialmente via Aversa uno dei primi quartieri costruiti grazie alla vendita delle terre, che era stato chiamato provocatoriamente “Rione Libertà”. Il gioco di Nunziante fu davvero raffinato: Aversa può richiamare un omaggio all’omonima città da un lato, ma l’etimo latino fa derivare la parola da “adversus” che significa “che ha voltato le spalle, ostile”. In senso figurato: via avversa.

C’è poi un altro filone della storia, che va dal Fascismo fino all’occupazione delle terre, avvenimento quest’ultimo che ha in parte riequilibrato i rapporti di forza tra i Nunziante e i Sanferdinandesi. Ma tale processo, proprio nel momento in cui mostrava i suoi primi frutti e proprio negli anni in cui San Ferdinando stava godendo di una guadagnata prosperità – la stagione degli anni Sessanta, il turismo libertario e politicizzato, la dolce vita alla Playa – popolare e raffinato locale del lungomare – l’espansione del settore agrumicolo, la maturità di un territorio ormai strappato dalle insidie della natura, ecco, proprio in quella fase, viene spazzato via dalla distruzione pianificata, ragionata, criminale e organizzata di parte dell’area, adibita a monumento della cecità politica e dell’arrivismo criminale. Le ruspe hanno fatto tabula rasa dei Nunziante, dei braccianti, delle rivendicazioni, dei soprusi, dei profumi, dei successi, delle conquiste e delle sconfitte di quell’area. Hanno cancellato la memoria culturale di quell’area: spazzata via, sdradicata. Tutto tornato a uno stato di verginità, a una forma di Eden industriale, di terra redenta in chiave capitalistica e industriale. Persino il piccolo insediamento di Eranova è stato vittima di una subdola forma di damnatio memoriae. La distruzione dell’area ha depresso di nuovo la zona fino alla riconversione in area portuale, avvenuta a partire dalla metà degli anni Novanta. Tale continua e repentina trasformazione ha ancora una volta creato dei profondi sconvolgimenti che però la cittadinanza non ha totalmente subito, abituata com’è a una continua capacità di adattamento. Forse, negli ultimi anni la popolazione ha accusato di più la nomèa di “sede della tendopoli”, che ha limitato le iniziative dell’Amministrazione entro un arroccamento narrativo molto avvilente e proveniente da voci prive di conoscenza del territorio; cosa non inconsueta, quando a parlare sono le grandi voci del villaggio globale. Il punto è che, come scritto all’inizio di questa storia, a San Ferdinando ci si arriva. Il percorso dal quale ci sono arrivato, una mattina di maggio, è quello descritto nel numero precedente. Di seguito cercherò di illustrare dove sono approdato.

Molti definiscono San Ferdinando un non-luogo, à la Marc Augè. Io sono profondamente contrario a questa definizione. A me sembra piuttosto una sorta di terra promessa in chiave postmoderna, molto simile per certi versi a certe realtà tutte americane o anglofone. Alcuni scorci mi ricordano paesaggi australiani (anche lì molti insediamenti nacquero grazie al lavoro dei servi di pena), altri una cittadina soleggiata di un villaggio dell’area del Magreb, altri delle grandi edificazioni post industriali nord europee. Dipende dove si fa correre lo sguardo. Se dal lungomare si guarda il Porto o se dal porto si guarda verso le abitazioni o da quale strada si arriva. Sicuramente il paesaggio è spaesante, sensazione ossimorica in un paese. Se si punta il mare verso est, lo sguardo da pianura corre orizzontale fino a incontrare l’ondulazione sospirosa dello Stromboli. Oppure, dall’altro lato, viene invaso dalla verticalità neofuturista dell’acciaio delle gru, che crea una cornice singolare, singolarissima. Se invece si punta oltre lo Stromboli, si torna a quel paesaggio tipico di un acquerello da Grand Tour, con Nicotera pigra adagiata sul crinale del monte e gli ultimi scogli del Golfo a far da sentinella, si sarebbe scritto due secoli fa.

È insomma in questa cornice che incontro Gianluca Gaetano, che per fortuna arriva come una tramontana a spezzare via questa mia incipiente vena romantìk. Gianluca è Assessore Bilancio, Fondi UE e Personale del Comune. Andiamo a sederci in un posto all’aperto. Porta con sé un fiume in piena di nomi, persone, pratiche che stanno rendendo importante questa realtà. Si tratta di un movimento sismico collettivo in cui l’Amministrazione, anche raccogliendo delle buone pratiche ereditate dalle Amministrazioni precedenti, si è fatta carico di diverse istanze volte a fare emergere una rivisitazione della propria storia in chiave di elaborazione di nuovi stili di vita sostenibili. Tutto ha un simbolico inizio nel 2018, quando il Comune entra in Act Now Mayors’ Network, che è un network gestito da una Fondazione che ha il proposito di scambiare reciprocamente buone pratiche. Tale Fondazione è stata poi assorbita da una ulteriore Fondazione che si chiama Innovation Politics Institute. Quella dell’Amministrazione di San Ferdinando è stata una scelta precisa, di ordine politico e finalizzata a un miglioramento della vita civile della comunità con lo scopo di aderire a un ecosistema virtuoso. Per realizzare tale scelta è importante avere alle spalle una comunità già pronta, cioè amalgamata con l’Amministrazione politica. Questo è il primo grande punto di innovazione che costituisce la base del cantiere realizzato finora. Gianluca parla ironicamente di congiunzioni astrali e di coincidenze. Per umiltà, è reticente sulla verità, che risiede in due elementi. Il primo è un inconscio collettivo molto fiero della propria identità culturale, che a sua volta genera una considerevole partecipazione dal basso, e l’altro è una forte competenza manageriale, di cui Gianluca, insieme ad altri Amministratori e collaboratori, è portatore e portavoce. La sua figura e le sue parole mettono in discussione anche la logica del nòstos: “io vorrei che la Calabria non fosse vista come un punto in cui si va o un punto in cui si ritorna. Mi piacerebbe che fosse una sorta di spirale, un circolo”. Un nodo di una rete, con la specifica identità. Fuori dalla logica del trattenere e dell’andare via. “Perché ciò avvenga serve una logica sganciata dall’agevolazione fiscale, dal porto franco. Occorrerebbe puntare sulle connessione, sulla formazione, sullo scambio di saperi economici, logistici, vista la realtà sanferdinandese”.

L’idea è di un sistema integrato in cui università, imprenditoria e politica insieme convergono verso la creazione di un circuito virtuoso capace di spezzare l’ennesima catena dialettica del nòstos, assolutamente suggestiva ma troppo sganciata da un’idea fattiva di futuro. Questa comunità si porta dietro una stratificazione di traumi collettivi che sorgono su una identità già fragile, essendo nata da una comunità formata da persone scappate dai loro luoghi di nascita. Per questo il tema della coesione sociale e della proposta di un modello nuovo rappresenta una forma quasi di redenzione per la comunità locale, perché è un potente motore identificativo e di riappropriazione identitaria che va oltre la dipendenza politica. San Ferdinando infatti ha avuto poco o niente di buono dallo Stato. Persino la ferrovia, che fisiologicamente sarebbe dovuta passare dal Paese, è stata dirottata a Rosarno perché altrimenti avrebbe potuto rovinare le vigne e l’annata di vino che i Nunziante stavano allestendo, prima che la fillòssera mandasse in aria tutto il business. Gianluca insiste sul fatto che questa Ammistrazione ha dunque deciso di lavorare dal basso, replicando pratiche iniziate in altre comunità del mondo o proponendone di nuove, facili da applicare e collettive. Me ne cita alcune: il progetto “We Drive Local Action”, cioè un contenitore dal quale vengono via via selezionate tre buone pratiche tra migliaia. San Ferdinando ha scelto “Cittadini attivi per il bene comune”, che consiste in una serie di iniziative, minime ma numerose, per la cura del bene comune. Un’altra buona e semplicissima pratica, creata dall’Amministrazione durante il periodo del confinamento in cui non era consentito uscire e stare fermi in un luogo pubblico ma era consentito transitare da un posto all’altro, è stata quella di incoraggiare la popolazione a uscire portando con sé un sacchetto per raccogliere la plastica. In questo modo era possibile trascorrere del tempo fuori e nel contempo svolgere un’attività utile per la collettività, pur nel pieno rispetto delle norme allora vigenti: a San Ferdinando quello della plastica non è un problema residuale, perché gran parte dell’inquinamento della spiaggia locale è esogeno, essendo detriti portati dal mare e non prodotti dalla cittadinanza. Questa pratica sta per essere replicata a Bolzano ed è implementata da iniziative massive che di tanto in tanto coinvolgono tutta la popolazione.

Molte di queste pratiche hanno come embrione il “Comitato 7 agosto” che all’inizio si occupava di sensibilizzare l’opinione pubblica e le Autorità affinché si ponesse fine agli sversamenti inquinanti che transitavano in un canalone presente nell’area. Tanto per intenderci, si tratta di gente che si è calata nel sottosuolo pur di documentare gli sversamenti, portandosi appresso le Autorità. Con queste azioni il problema è stato in larghissima parte risolto. C’è il progetto Snuffit, che consiste in un esperimento a metà strada tra un test e una pratica che un’azienda finlandese sta facendo con la collaborazione dell’Amministrazione locale insieme alla cittadinanza e ai commercianti locali. L’idea è questa: agli esercenti viene dato un posacenere fabbricato in cellulosa. Il posacenere verrà dato gratuitamente ai clienti fumatori, che provvederanno a raccogliere dentro le cicche di sigaretta. Una volta riempito il posacenere, lo portano all’esercente che offre un piccolo premio in cambio al cliente. L’esercente a questo punto traccia il posacenere e lo depone in un dispenser che ne contiene un certo numero. Riempito il dispenser, l’esercente avvisa l’azienda che manda un corriere a ritirarlo e che verrà in seguito riciclato. Con la cellulosa riciclata si farà carta e termoplastica. Il progetto, che si svilupperà su scala nazionale e poi su scala europea, è nato in seno a una sinergia tra il CNR e le università di Helsinki, Torino e Genova e ha un importante valore strategico perché riguarda anche i brevetti per il riciclo. Dal punto di vista urbanistico invece, la visione nel medio termine è quella di realizzare un parco urbano, capace di creare una realtà orientata a un’economia di benessere.

Orti diffusi, rivalutazione della spiaggia vista certo come un luogo di servizi ma anche come rilancio di un nuovo quartiere all’interno della comunità: luoghi umanizzati. Tutto ciò ha come sfondo un ripensamento totale dell’area urbana: se ne sta iniziando a ragionare anche attraverso l’Associazione OVO, in sinergia con il Dipartimento di architettura e urbanistica della Columbia University di New York, realtà che si è dimostrata molto interessata a studiare l’area. Dal punto di vista naturalistico invece, un giovane studioso di nome Domenico Bonelli ha evidenziato la presenza nel territorio della ginestra bianca, antichissima pianta già citata nella Bibbia e poco diffusa in Italia. Ciò non dovrebbe stupire se si pensa al fatto che queste pianure hanno ospitato gelsi, robbia, vigne, tabacco, bambou, oltre agli ulivi e agli agrumi naturalmente. Durante la guerra di Secessione americana qua si piantò persino cotone, per sopperire al blocco delle esportazioni. Nella seconda metà dell’Ottocento arrivò un agronomo tedesco di nome Carlo Sprenger che suggerì di piantare carote, cetriolini, asparagi, fagioli e soprattutto patate che, infrastrutture permettendo, arrivavano dritte fino a Berlino. Se a fine Ottocento c’era bisogno di agronomi, adesso c’è bisogno di botanici e urbanisti capaci di ripensare gli spazi e i giardini di questa comunità e di farne un laboratorio di idee. Altri progetti riguardano il coinvolgimento dei turisti per contribuire alla cura dei beni pubblici in modo da implementare il dialogo tra il turista, concepito come soggetto che “lascia” qualcosa, e il luogo che lo ospita: adottare un albero per esempio, o contribuire al rifacimento di uno spazio pubblico. E poi c’è un progetto che costituisce la vetrina di San Ferdinando nella scena delle comunità virtuose. Si tratta del seconda edizione di “Countless Cities”, la Biennale delle Città del Mondo che si tiene a Favara. Quest’anno i tre temi principali saranno la diversità abitativa, la buona imprenditoria e la rinaturalizzazione del paesaggio urbano. San Ferdinando sarà presente con un’esposizione dal titolo “Saluti da San Ferdinando”, una rassegna fotografica che presenterà quattro categorie di fotografie: immagini d’archivio che mostrano la Piana di Gioia Tauro durante il periodo che precedette lo scempio del centro siderurgico; immagini della costruzione dell’agglomerato industriale; un reportage fotografico e pannelli informativi che illustrano le attuali e future iniziative di cittadinanza attiva; immagini che ritraggono San Ferdinando in una dimensione onirica in chiave di realismo magico.

Si parla di punte di un iceberg, contronarrazioni che remano contro la natura corrosiva della mosca bianca. Sotto la punta di questo iceberg c’è il mondo dell’associazionismo locale, un gruppo di cittadini e cittadine attivi molto competenti e preparati nelle loro materie: architetti, specialisti in comunicazione, avvocati, fotografi insieme ad altri attori civili importanti come i volontari del servizio civile e la scuola che lavorano affinché questa identità perduta venga riconquistata attraverso la creazione di nuovi dispositivi narrativi e comportamentali. Le iniziative non sono solo quelle elencate: ve ne sono altre ancora in embrione, mentre altre sono idee che necessitano ancora di una ulteriore strutturazione. Il punto è che questa è una realtà in profondo cammino, in profonda trasformazione. Un laboratorio fertile, un terreno di sperimentazione in tutto e per tutto identico a queste terre, floride e vivacissime, capaci di creare piante edeniche, ginestre bianche.

Termino questo incontro con un bagaglio impressionante di informazioni. Mi congedo da Gianluca, mi dirigo verso l’auto e mi perdo un po’ tra queste casette e questo piano regolatore così squadrato e ordinato, dal quale traspare una amorevolezza sofferta e ancora carica dagli abbrutimenti del passato. Ci sono scorci da primo Novecento, un bellissimo viale alberato che conduce a un asilo voluto dopo il terremoto del 1908 da uno dei Nunziante, secondo alcuni per allevare braccia e corpi da sfruttare, secondo altri per spirito di carità. Non si finirà mai di reinterpretare la storia, e in fondo è un bene. Lascio quell’Italia lì, dove deve stare. E cioè alle mie spalle, pur portandone il ricordo ma mai il peso. Sento aria di novità, le palme del viale si accarezzano le une con le altre, mosse da un vento oggi gentile ma che in passato ha generato alberi torti e caritatevoli come vecchi artitrici. Qui, l’impero della verticalità appartiene alle chiese e all’acciaio delle gru del Porto che si vedono in lontananza. Ma la sismicità orizzontale del vento, alla fine, ha sempre avuto la meglio.

In copertina: Joseph Jost, “Natura morta con arance, limoni e caraffa”.

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