
Camini è un piccolo comune di poco più di 750 abitanti situato nella fascia jonica della provincia di Reggio Calabria. Il borgo è situato nell’immediato entroterra e dista pochi chilometri dal mare. Per capire la storia di questo borgo e le attività che adesso vi si svolgono, bisogna però parlare di un comune vicino, e cioè Stilo. Ciò perché Camini, fino al 1811, è stato un suo Casale, e non è possibile capirne l’attuale fenomenologia sociale se non si studia la storia che l’ha generata. Secondo alcuni storici, fu a causa delle invasioni saracene che sei piccoli casali della fascia ionica a settentrione della provincia di Reggio Calabria, intorno all’VIII/IX sec. d. C., decisero di confederarsi. All’origine gli insediamenti erano quelli di Guardavalle, Stignano, Riace, Camini Pazzano e Stilo, che ne era il centro amministrativo. Secondo altri, la confederazione era molto più ampia. La zona, già interessata dalla colonizzazione magno-greca, si distingue subito nelle cronache storiche per essere un teatro incredibile di avvenimenti. Per esempio, nomi e suoni che adesso richiamano sbarchi e accoglienza sono stati per anni il terrore di intere popolazioni: il 13 luglio del 982 in queste zone si è combattuta una battaglia che ha lasciato quattromila morti sassoni sul campo (ma va chiarito che, secondo altri storici, la battaglia si combatté nel crotonese). Una mattanza che ha fatto passare ai tedeschi la voglia di tornare nel sud Italia almeno fino alla Seconda guerra mondiale. “La Roncisvalle degli Ottoni”, “La Canne dell’Impero tedesco” ha visto contrapposti Ottone II di Sassonia, Imperatore del Sacro Romano Impero desideroso di allargare il proprio potere anche nelle terre bizantine, e l’Emiro Abul-Qasim Ali, per l’occasione alleatosi con i Bizantini. La eco di questa sconfitta fu così forte da far fischiare le orecchie ai dissenzienti di tutta Europa. Poco meno di un secolo dopo, nel 1071, dopo sei anni di strenua resistenza, gli stilesi si arresero ai normanni. Inizia probabilmente in questo periodo la conquista di una fiera e orgogliosa conservazione della propria Regia demanialità, forse dovuta ai larghi privilegi concessi dai normanni per ingraziarsi la popolazione. L’area diventò presto anche un luogo di pellegrinaggio: non poteva essere altrimenti, in una Calabria abituata a fare da casa a eremi, laure bizantine e cenobiti immersi in crisi esistenziali profondissime, che in questi luoghi trovarono riparo e sollievo. Con l’arrivo degli angioni venne riconfermato lo statuto di città demaniale, e così successivamente, durante il periodo aragonese. La città fiorì: vennero messi a coltura parecchi terreni, anche con l’operosa collaborazione delle istituzioni religiose sia ortodosse e sia latine e fiorirono gli studi e gli scambi commerciali. Come ciliegina sulla torta, nel 1568 nasce Tommaso Campanella: anche in questo caso, nessuna mosca bianca ma punta dell’iceberg. La cultura filosofica del Frate domenicano gemmava su una potente rete di conventi presente nell’area e in tutta la Calabria. Tali conventi avevano al loro interno biblioteche di grandissimo valore e ospitavano intellettuali poliglotti e raffinatissimi. Sarebbe di una stupidità sconcertante pensare che personalità simili possano essere nate dal nulla, eppure la narrazione dominante colloca sempre Campanella (o Telesio, o Barlaam, per citare i numi tutelari) come mosche bianche nell’oscurantismo del tempo.
Nel 1642 l’area conta circa ventimila abitanti. L’Università, così veniva definita, doveva versare di anno in anno un canone al Re per la concessione della demanialità. Ebbene, nello stesso anno un gruppo di notai e di nobilotti riuscì a organizzare una cessione fraudolenta dell’area ai archesi Arena. Iniziò una violenta diatriba tra questi ultimi e l’Università che culminò con un fatto sanguinoso e di brutale violenza: il 1 febbraio del 1648 infatti, a Stilo si presentò il Marchese con trecento avanzi di galera assoldati per l’occasione. Arena e suoi iniziarono a mettere a ferro e a fuoco la città: saccheggi, linciaggi, violenze di ogni tipo. Morirono decine di persone, uccise senza motivo se non quello di creare terrore. L’idea era quella, già allora, di reprimere e soffocare un sistema politico e culturale virtuoso. Operazione che si ripeterà negli anni a venire e fino ai giorni nostri, seppure in forme più molto più raffinate ma non meno dannose. La vicenda del Marchese, che si trascinerà per anni, non scalfirà il modello politico e amministrativo locale, che continuerà a mantenere la propria autonomia. Piuttosto, è ben altro a minarne la solidità: con il terremoto del 1783 e con la conseguente istituzione della Cassa Sacra, vennero realizzati i primi espropri dei beni ecclesiastici, tra cui le numerose biblioteche dei conventi. Pertanto, viene decisa la creazione di quattro biblioteche nelle città più importanti della Calabria, in modo da recuperare l’immenso patrimonio librario incamerato dal Governo borbonico. Quest’opera si perse però dietro intrighi, gelosie, rivendicazioni. Alla fine, alcuni testi finirono in case private, altri in archivi e in biblioteche pubbliche mentre quelli presenti a Stilo finirono negli archivi di Catanzaro, dove i tarli e l’incuria li renderanno degni del macero. Il 29 agosto del 1806 poi, durante un incendio appiccato dai soldati francesi, viene dato alle fiamme l’intero archivio della città. Si è cancellata così, in poche ore, una memoria storica che affondava le proprie radici nei privilegi e nelle lotte combattute nel corso della storia, ed è andato perduto un patrimonio librario e documentale che, in passato, aveva rifornito biblioteche importanti come quella Vaticana. Inutile dire che poi furono gli stessi intellettuali francesi da Grand Tour a meravigliarsi, nelle loro proto-guide turistiche oggi elevate quasi a esempi di letteratura alta, di quanto l’area fosse decadente, omettendo colpevolmente di raccontare ciò che i loro connazionali avevano fatto pochi anni prima (emblematico è l’esempio di Astolphe de Custine e della sua tappa a Stilo nel 1812, in cui non viene fatto cenno all’incendio del 1806). Infine, nel 1811 Stilo diviene municipalità, e così Camini. Da questo momento in poi le strade dei due comuni si separano, ma sostanzialmente rimane intatto quello spirito di autonomia e di orgoglio locale che, in maniera accennata e lunare, emerge potente e inaspettato in determinate iniziative, pratiche, modalità di vita.
A illustrarmi l’organizzazione della Cooperativa che ha messo in piedi la Camini di oggi è Rosario Zurzolo, il Presidente di Eurocoop Servizi Jungimundu. La Cooperativa nasce nel 1999, con lo scopo di inserire persone svantaggiate nel mondo del lavoro. Nel 2011, con lo scoppio della guerra in Libia e con la stagione della Primavera araba, l’Associazione si attiva per creare politiche di accoglienza adatte alle esigenze del periodo: si lega pertanto alle attività che il Comune di Riace stava già portando avanti. Il primo progetto si è occupato di ospitare undici ragazzi ivoriani che lavoravano nella raccolta delle olive dei terreni abbandonati, producendo e vendendo l’olio locale. Da qui la Cooperativa ha iniziato a creare altri servizi, cercando di ideare un modello di economia circolare e di ripopolamento del territorio. La Cooperativa fa oggi circa cinquanta soci con diverse partnership con il mondo dell’associazionismo civile e religioso: Unione Buddhista Italiana, Chiesa Valdese, Comunità di Sant’Egidio.
Ad accompagnarmi nel paese invece è Celestino Gagliardi, che mi mostra le attività che vengono svolte nella Comunità. I lavoratori sono diversi e tutti molto attivi. Per tutti i laboratori presenti, vige un principio molto semplice e tutto comunitario che si predica, ovviamente con un lessico diverso, almeno sin dai tempi del socialismo utopico: lo scopo del lavoro è terapeutico e di formazione. In un secondo momento, soddisfatti questi due requisiti, si punta all’aspetto produttivo. In altre parole, Celestino mi sta parlando di un falansterio in cui si sperimenta una modalità di produzione virtuosa in cui i lavoratori producono manufatti di grande qualità proprio perché frutto di due elementi che dovrebbero essere alla base di ogni attività lavorativa: il benessere personale, raggiunto attraverso la pratica di una lavoro manuale e l’apprendimento di un lavoro, cioè quella che oggi viene volgarmente definita “la competenza”. Nello specifico: c’è il laboratorio di sartoria e cucito, dove tra le altre cose si producono giubbotti catarifrangenti per i lavoratori della piana di Gioia che si spostano prevalentemente in bicicletta. Il laboratorio di tessitura, finanziato dall’Unione Buddhista, che rappresenta una variante rispetto al sistema classico perché ha anche una parte di vendita dei prodotti sul sito. Le donne che vi lavorano sono vittime di tratta e, attraverso l’apprendimento di un mestiere, stanno piano piano recuperando la stabilità perduta. Inoltre, l’attività prevede la produzione di capi ecosostenibili, con l’uso di stampe a vapore di prodotti naturali e con il recupero dei telai che venivano usati un tempo – un falegname di Camini ne ha costruiti cinque partendo da un prototipo originale. C’è un laboratorio di cucina, dove ogni giovedì si fanno degli incontri coi bambini per insegnare a cucinare. Gli incontri, così come tutte le attività del laboratorio, sono aperti a tutti, a prescindere dallo status politico o burocratico o dall’anagrafe. Il cibo proviene dall’orto sociale gestito dalla Comunità e i prodotti che non sono usati vanno poi alle famiglie. C’è il laboratorio di arte in cui si fabbricano gioielli di carta riciclata nell’ottica di un’educazione al riciclo – anche qui lo scopo è creare il laboratorio per fare attività. Ci sono poi i laboratori di ceramica e di liuteria, che offrono ulteriori esempi di ciò che può essere prodotto con l’intelligenza delle mani. Tra l’altro, si svolge un interessante lavoro di recupero storico: dall’uso del telaio alla produzione della lira calabrese e alla lavorazione delle ceramiche: tutti manufatti già presenti nella nostra tradizione e che adesso vengono riproposti. L’altro aspetto della realtà cooperativa di Camini sono le case. In ottica di ripopolamento e di riuso delle strutture abbandonate, la Cooperativa compra le case abbandonate e le ristruttura usando i materiali di risulta. L’uso di queste abitazioni è destinato all’accoglienza oppure al turismo diffuso, che a sua volta finanzia i progetti di cooperazione. Questa strategia di economia circolare e di ripopolamento ha permesso a Camini di avere una posta e una scuola, che precedentemente erano state chiuse. Ha permesso a diverse persone di non lasciare il proprio Paese, ma di viverlo come un luogo di realizzazione di progetti professionali. Ha permesso a diverse famiglie di trovare una prospettiva.
In definitiva, qual è il lavoro che l’opinione pubblica può fare per sostenere tali progetti, a parte gli attestati di stima verbali o l’appoggio morale o concreto? Oltre a collaborazioni volontarie fattive, il punto più importante è servirsi di tali modelli per infrangere il muro della mosca bianca e cominciare a pensarsi come cultura capace di generare modelli virtuosi. In altre parole: togliersi i paraocchi introiettati dalla cultura dominante e iniziare a porsi le domande giuste. Per esempio: perché una realtà così è nata proprio in questo posto, e non altrove? Tale domanda ci rivela delle verità feconde: questa realtà è nata qui e non altrove perché Camini è la punta dell’iceberg di un sistema culturale virtuoso che ha trovato fertilità e sviluppo in una cultura, quella appartenente all’area politico-culturale stilese, che ha da sempre vantato un primato di profonda autonomia e indipendenza dal potere feudale, obbligando la popolazione a trovare modalità di organizzazione sociale del tutto nuove e originali rispetto ai contesti vicini. Culture che si sono sempre auto amministrate hanno per definizione un grado di maturità culturale molto evoluto. Non è un caso che il modello Riace sia nato nello stesso contesto. Bisogna cambiare paradigma e iniziare a pensare che i sistemi virtuosi non nascono esclusivamente per la buona volontà di un soggetto: questa volontà è semmai un interruttore che però, per essere alimentato, ha bisogno di una cultura che lo sostenga. In questa zona, questa cultura c’è: è nella storia di queste famiglie e di queste persone. Ribaltare la logica interpretativa di questi fenomeni, passando dalla logica della mosca bianca alla logica della punta dell’iceberg è il primo atto che il lettore dovrebbe fare per cominciare ad acquisire coscienza critica sulla realtà sociale che abita.
foto di copertina di Angelo Sindoni