
di Francesco Greco
Messina con i suoi 56 chilometri di costa, la città “più marittima d’Italia”, e i suoi 48 Villaggi ha sempre offerto ai suoi abitanti una posizione privilegiata, che consente con relativa facilità di godere tanto dei luoghi di montagna, quanto dei luoghi costieri. La storia di Pino Pellegrino, classe 1954, autore del libro “In dialogo con il mare” (Eco dei Villaggi – Corrado Minasi editore, 2015), è quella di un ragazzo cresciuto in un villaggio di montagna, Briga Superiore, che però ha sempre portato il mare nel cuore, tanto da costruirsene uno nel lavatoio da bambino, utilizzando un colorante blu, per far assomigliare l’acqua trasparente del rubinetto ai colori dei fondali marini.
La famiglia di Pino, quelle rare volte che andava al mare quando era piccolissimo, doveva stare attenta a non perderlo di vista, poiché già alla prematura età di un anno e mezzo, sperimentava le prime immersioni subacquee.
«Ero al mare con mio zio Nino che pescava murene con lenze attorcigliate ognuna a una canna infissa nella sabbia. Vedevo in acqua una moltitudine di pesciolini e con le mie manine cercavo di afferrarli, fino a sedermi sul fondo del mare e immerso giocavo con loro. Mio zio non vedendomi più, era risalito a casa per cercarmi, e non trovandomi riscese in spiaggia e poi tuffandosi in acqua mi ripescò».
Una passione che ha continuato a coltivare anche da ragazzo, attendendo la fine della scuola e quindi delle vacanze estive per sperimentare le prime vere apnee, nonché l’autocostruzione dei primi strumenti da pesca.
«Quando ero ragazzo ci siamo trasferiti a Briga Marina, a pochi metri dal mare, una gioia per me. Facendo leva sulle mie promozioni scolastiche, con non poche pressioni su mio padre, riuscì a farmi regalare la prima maschera da sub. Inizialmente provavo ad afferrare i pesci a mani nude, poi con uno strumento costruito con una forchetta da cucina, infine il colpo di genio che mi fruttò la pesca di tanti pesci. Trovato un ombrello, ne staccai le stecche di ferro che fanno da telaio, e ne legai quattro con uno spago colorato, dello spessore di tre millimetri, chiamato “scupidù”; ricoperte le stecche di spago colorato, aggiunsi un filo di lenza alle due estremità, e una volta affilata una punta ecco pronto un arco con freccia. Pian piano riuscii a pescare sempre più pesci, 10, 20, 50… ero diventato il terrore del mare e la mia avventura da pescatore subacqueo iniziò».
Una pratica che ha imparato senza nessuna scuola specialistica, nessun corso professionale, come ha fatto?
«In estate osservavo con ammirazione quei ragazzi, potevano essere sedicenni, i compaesani Liborio, Pinuccio e Virginio, che armati di pinne, maschera, boccaglio e fucile tornavano con un ricco bottino di polpi, cernie e altri pesci. Erano bravissimi e io restavo stupefatto da tutto questo. Erano diventati i miei miti a cui ispirarmi. Molto devo anche a Franco che mi ha insegnato a effettuare la pratica della compensazione per non sentire dolore ai timpani scendendo sui fondali, man mano che la pressione aumentava».
L’apnea è una pratica rischiosa, che richiede una certa preparazione fisica, è necessario saper carpire i segnali del proprio corpo e riconoscerne i limiti per non arrivare al punto di non ritorno.
«’Mens sana in corpore sano’ dicevano gli antichi. Ispirandomi a questa massima latina, mi sottoponevo almeno una volta all’anno, alle volte pure due, a visite specialistiche per verificare il mio stato di salute, pratica che ritengo dovrebbero adottare tutti gli apneisti. Qual è il migliore allenamento per un apneista, essendo io autodidatta, non so dirvelo, ma posso raccontarvi la mia esperienza. Mi piace nuotare e quindi durante le bracciate adopero degli accorgimenti. Nuotando regolo la respirazione, facendola coincidere una a ogni due bracciate, dopo una settimana una ogni tre, poi quattro e così via. Per me un ottimo allenamento di resistenza della muscolatura in debito di ossigeno».
Bisogna saper utilizzare con attenzione l’attrezzatura da pesca subacquea, se da predatori non si vuole diventare preda.
«Una volta, agli inizi delle mie esperienze subacquee, non portavo con me il pugnale, così durante un’immersione nella quale avevo arpionato un polpo nella sua tana, senza riuscire a farlo fuoriuscire, la sagola del fucile (cavetto che tiene ancorata la freccia al fucile per la pesca subacquea dopo lo sparo) si ingarbugliò al mio corpo. Essendo quasi al limite dell’apnea, provo la risalita. Immaginate il polpo in tana, e io bloccato a due metri dalla superficie. Capisco di non avere il tempo per scendere nuovamente e tentare di far uscire il polpo, così sfruttando al massimo la mia pazienza e il residuo della scorta d’aria, mi metto a sbrogliare la sagola e ne uscii vivo. Da quel momento ho prestato molta più prudenza e attenzione, non ho più portato addosso oggetti che potessero diventare pericoloso appiglio. La prudenza non è mai troppa, ci può attorcigliare al collo, a un piede… Ricordo il racconto di un amico di Filicudi, che mi parlò di un pescatore che a causa della sagola attorcigliata a una caviglia, venne trascinato da una cernia di quindici chili fino alla tana, dopo quella brutta esperienza smise per sempre di praticare questa attività sportiva».
Il mare, soprattutto d’estate, è sempre più frequentato non solo da pescatori, ma da persone che praticano altri sport, una convivenza non sempre facile.
«La prima collisione l’ho avuta con il mio amico Nino. All’improvviso durante un’immersione parecchio distante dalla riva, mi scontro con un oggetto duro. Ma non era un oggetto contundente, mi sono scontrato con un’altra testa! Che capocciata! Mi sono fatto il bernoccolo io e l’altro. Appena ci siamo identificati ci siamo messi a ridere a crepapelle, rischiando di affogare per l’inghiottimento dell’acqua. Ma l’esperienza più brutta l’ho avuta nell’estate 1981, volendo fare una battuta di pesca mattutina, mi immergo alle sette e con la boa segnaletica mi dirigo verso il largo. Fatti meno di cento metri, mi sono scontrato con un motoscafo. Sicuramente chi lo guidava era distratto o pensava che sfrecciare sulla superficie del mare, si potesse fare anche a occhi bendati poiché, non essendoci altre barche, pensava solo al suo personale divertimento, escludendo la categoria dei pescatori subacquei. Tutti vogliamo divertirci, ma dobbiamo essere consapevoli di prestare sempre molta attenzione, perché il mare è di tutti e non solo di quelli che amano le barche a motore, la canoa, il surf o le moto d’acqua, ma anche di quelli che come me, fanno pesca subacquea e te lo segnalano con un pallone boa sormontato da una bandierina. Per disposizione di legge qualunque imbarcazione deve transitare a non meno di 60 metri da queste boe. Ho perso quasi un anno di pesca per questo incidente, dal quale grazie a Dio mi sono rimesso».
Pino ha avuto la fortuna di conoscere i nostri mari nel corso dei decenni, e quindi ne conosce i cambiamenti. Che cosa ha visto cambiare?
«Agli inizi di questa mia attività vedevo un mare fiorente di flora e fauna, ma con il passare del tempo è stato sempre peggio. La mano sconsiderata dell’uomo alle volte può essere davvero distruttrice. Un segnale dell’inquinamento l’ho identificato nel cambiamento di colore della Bavosa, un tempo era di colore grigio e poi via via si è trasformata fino a diventare nera. Probabilmente cambiamenti dovuti ai prodotti chimici utilizzati sempre di più nelle case e nell’agricoltura, che poi con gli scarichi e le piogge si riversano in mare. Per non parlare di quei pescatori subacquei che una volta utilizzavano il cianuro per stanare le cernie e facilitarsi la cattura, il problema è che quella sostanza permaneva per molto tempo nella tana e non permetteva ad altre cernie di tornarci ad abitare. Oppure è capitato che dei pescatori di frodo, alla ricerca di facili guadagni, stessero portando all’estinzione le murene, poiché non rispettavano la ferma per permettergli la riproduzione».
Ci racconta una sua esperienza di pesca?
«Frequentavo uno scoglio a circa 16 metri di profondità nel mare di Giampilieri Marina. Da un anno trovavo sempre la solita cernia che avevo battezzato “Regina”. Come al solito la trovavo sulla sommità dello scoglio, mentre io risalivo lei rintanava, e nel tentativo di arpionarla mi lasciava sempre a mani vuote. Sicuramente ero il suo divertimento. Finché un giorno di luglio sono riuscito a catturarla, ma lei rientrò ugualmente nella tana, aprendo le sue branchie così da impedirmi di tirarla fuori. Credevo che ormai fosse comunque mia, ma non fu così. Si è vendicata di brutto nella morte. Una volta uscita fuori aveva rigurgitato una grossa triglia. L’ho lasciata nel suo ambiente, avrei preferito non spararla e vederla ancora. Vi sembra strano che mi dispiaccia? È così!».
Pino Pellegrino testimonia l’amore profondo per il mare e la storia di un pescatore che non si comporta da predatore, ma da sub in simbiosi con l’ambiente marino e le sue creature, tanto da comprenderne, con la sua sensibilità, l’inestimabile e fragile ricchezza da tutelare, prima di una incontrovertibile distruzione.
@FscoGreco