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Rinascita Scott: una cronaca per sottrazione

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Il processo Rinascita Scott si sta caratterizzando come un unicum nella nostra tradizione cronachistica in tema di mafia. Sarebbe il caso, per esplicitare tale riflessione, di elencare molto brevemente la cronaca di questa discronaca, intrisa com’è di motivazioni giuridiche, etiche e culturali che si intersecano fra di loro. Giusto per fare un po’ di ordine, partirei dall’interrogazione parlamentare del 15 maggio 2020 in cui il Senatore De Bonis ha chiesto al Ministro della Giustizia di farci sapere quali iniziative intenda intraprendere al fine di rendere pubblico il processo con modalità più ampie rispetto a quelle accordate. Tali modalità non sono al momento quelle consuete poiché il Tribunale di Vibo Valentia, dopo avere in un primo momento disposto il divieto assoluto che le udienze venissero riprese, ha poi emanato un’ordinanza in cui ha autorizzato la pubblicazione integrale delle riprese, ma solo con telecamere fisse e dopo la lettura del dispositivo della sentenza, mentre, prima della lettura del dispositivo della sentenza, ha autorizzato solo brevi video senza audio, con espresso divieto alle Tv e alle testate giornalistiche di poterle trasmettere. Al momento in cui scrivo, non mi risultano risposte da parte del Ministro, ma la cosa non ha particolare importanza in questa sede, dove si ragiona di modalità narrative, e non giuridiche o etiche.

Sotto l’aspetto narrativo, ha importanza il fatto che “La C”, al momento, è una delle poche emittenti, se non l’unica, ad affrontare l’argomento. Quindi, sono le emittenti locali adesso a fare da battistrada su una sintassi narrativa alternativa, e non i grandi colossi massmediatici, che su questo tema sono oramai in una posizione di forte sofferenza (questo testimonia anche quanto il principio di “stare sulla notizia”, di “fare maratona”, sia una sciocchezza retorica priva di riscontro reale). Raccontare ciò che non può essere mostrato proprio in un’epoca in cui la scrittura è fortemente ancillare rispetto all’immagine è infatti una grande scommessa creativa. Qualche settimana fa ho visto uno degli speciali condotti da Pino Aprile e Pietro Comito con alcuni ospiti in studio o in collegamento esterno, proprio con l’interesse di capire le soluzioni trovate su come battere questo sentiero. I due erano in tandem a leggìo, un po’ come dei cantastorie, a voler recuperare una timida parvenza di reminiscenza mitica, teatrale. Mi aspettavo pertanto una impostazione declamatoria e tutta orale, da teatro civile per intenderci; invece, mi sono accorto che quel leggio serviva solo a garantire la staticità dei conduttori, evitando alla regia di dover anticipare i loro movimenti con il rischio di creare disorientamento nello spettatore. I pochi spezzoni del processo erano relativi soprattutto a frammenti di intercettazioni.

Il corredo strettamente giornalistico era affidato a servizi esplicativi di alcuni episodi vicini al dibattimento, ma senza che i conduttori cercassero di tirare le fila in maniera coesa su chi era implicato in cosa e dove. Era una specie di racconto che assomigliava ai resoconti fuori dall’aula in cui, all’università, si sostenevano gli esami. I commenti degli ospiti aiutavano a fare luce su alcuni accadimenti e incoraggiavano il desiderio di giustizia e di verità. Di tanto in tanto, alcune illustrazioni facevano capolino, instaurando una liason inconscia con le illustrazioni mostrate nei grandi processi di risonanza massmediatica americana, tipo quello a O. J. Simpson per esempio: ecco, era una delle poche eco delle grandi retoriche massmediatiche mondiali che ho notato. La sensazione – la mia sensazione – era sempre quella di un continuo senso di spaesamento narrativo, dovuto probabilmente alla messe di immagini proiettate sullo schermo sottoforma di suggestioni, ricostruzioni, spezzoni, senza che ci fosse un filo conduttore potente dietro.

Era un po’ l’effetto caverna o l’effetto ombre cinesi o l’invito a far parte di un rassicurante focolare in cui si raccontano fatti tremendi prima di andare a dormire. Ho notato pertanto, in ultima analisi, un sottile horror vacui della scrittura, come se la possibilità di affidarsi a una spiegazione scritta, letta e compiuta dei fatti, in maniera ordinata e precisa e senza per forza staccare in continuazione con dei servizi visuali, fosse una cosa disturbante, da evitare. Ecco, invece secondo me la direzione da battere è proprio quella della coesione narrativa, del tema portato a dorso di scrittura fino in fondo nella selva dei dibattimenti; della descrizione a leggìo o scandita da un incedere, anziché quella del patchwork visuale (ovviamente tenendo conto dei giusti contrappesi). Per dare un riferimento: un format simile a “Blu notte” di Lucarelli, dove di immagini ce ne erano pochissime, se non i cartonati, e il racconto era comunque capace di allertare l’attenzione dell’ascoltatore dal primo all’ultimo minuto. Un racconto in cui la narrazione classica ha il pieno dominio. Detto questo, a “La C” va il mio massimo rispetto per il lavoro che stanno facendo, unici nel penoso silenzio del panorama massmediatico italiano.

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