
Quando mi sono iscritto al social più famoso, ho pensato di aggiungere “giornalista che ama il mare!” Perché? Lo si intuisce, ovvio. E perché lo amo? Perché sono nato, tantissimi anni fa a venticinque metri dal mare, a San Ferdinando. Tanto distava la casa dei miei genitori dal Tirreno. Mi affacciavo, quando ero più grandicello, e dalla finestra ammiravo il mare. Lo vedevo, lo respiravo, lo gustavo. Un passo indietro, poi riprendo. Quando sono nato – l’amore è fondamentalmente di generazione- mio padre era a mare. Era andato a pesca. Lo sapeva che i giorni del parto si erano compiuti. Pur nondimeno il mare per lui era una calamita, d’estate. Non riusciva a non raggiungere la spiaggia, d’estate e di inverno. Era più forte di lui. Quando è tornato io ero già nato, ed ero il primo figlio. Nessuno avrebbe potuto avvertirlo, ovvio. Per una decina di giorni, almeno questo, non si è mosso da casa. Il “mio maestro-papà- lo amava soprattutto d’estate, per andare a pesca di tutto. Della qualunque direbbero a Messina. D’inverno era più temerario, ma non disdegnava le uscite. Le sue pescate favorite erano almeno tre. In primis la complicatissima “caccia alla seppia”, poi “i surici e le tracine col “volantino”, poi, di notte, con la lampara, le aguglie. Si diceva, lo ricordo bene, “a bottiare”! E d’estate, alle cinque del mattino, con la sua barchetta di legno, a remi, usciva di casa. Aveva avvertito i suoi aiutanti di campo: Ciccillo ‘u pilusu e Nino ‘u cucchiaruni . I quali, puntuali, si facevano trovare vicino casa, pronti a prendere i remi (si dovevano necessariamente tenere a casa, altrimenti ne avresti trovato quattro), ‘U sivu (il sego da spalmare sui legni per far scivolare la barca dalla spiaggia in acqua) e i “conzi” (materiale vario utile per la pesca) dallo specchio, alla fiocina, alle lenze. Non poteva mancare qualche bottiglia d’acqua, al massimo un cocomero, una bottiglietta di alcool con cotone nel caso un amo o una spina si conficcassero tra le dita, un mini-coltello, una latta per l’eventuale pescato, e, d’obbligo, un cappellino, di paglia o di stoffa, per evitare le scottature alla testa. All’alba anche un maglioncino per il grande freddo ed un pantaloncino lungo. Le creme ad alta protezione non c’erano o erano roba per ricche signore.
Non ricordo altro, anche perché, povero me che preferivo fare le ore piccole sul sagrato della chiesa, non sempre riuscivo ad alzarmi alle 4 del mattino. Per inciso non so come fa la mia bravissima collega Luana Cremasco, madre di due figli, ad alzarsi ogni giorno alle quattro per essere a Saxa Rubra alle cinque e condurre il primo Gr1 alle sei. Brava e ottima giornalista, non certo parassita, come direbbe, oggi, un leader di maggioranza. Spesso non ce la facevo e mio padre, dopo avermi chiamato, se non mi vedeva giungere a riva, intuiva e faceva “varare la barca” a Ciccillo o a Nino, ogni tanto c’era Zarafinedu. E, quindi, spesso mi sfuggiva il vettovagliamento. Che, comunque, era quello di cui ho parlato. Qualche volta, pur con gli occhi chiusi, e senza lavarmi, riuscivo a giungere a riva, saltando sulla barca. Così non mi perdevo il “matinè del Tirren blu”. Remava mio padre, alternativamente con Ciccillu ‘u pilusu. Poi, individuato il posto dove “buttare l’ancora”, altro pezzo indispensabile perché la barca stesse ferma ed iniziare le due-tre ore di fatica e di pazienza, con l’ “Aurora” – questo il nome della barchetta – iniziavamo la nostra “vita del mare”. Poche voci, un sorso d’acqua e nessuna sigaretta (mio padre non lo permetteva) e “u pilu i vermu” il nastro di nylon, raccolto su un pezzo di sughero, si calava in acqua! Toccano o non toccano? Significava che, all’amo della lenza veniva attaccata l’esca e, se c’era “u surici, a gaiola o a tracina”, toccava, si mangiava l’esca e finiva per ingoiare l’amo, nel quale il pesce restava impigliato. La gioia qual era? Il fatto che la lenza si muovesse. Tocca tocca, l’ho presa, l’ho presa. Tira, tira. Ed ecco che spuntava il primo pesce della giornata. Un piccolo, ma non secondario, problema era togliere l’amo dalla bocca del pesce! Se fortunati, di scena come questa se ne ripetevano in tante. Se invece, il pesce non toccava, a me toccava il compito meno difficile di tirare l’ancora e, mentre mio padre guardava le acque del mare, Ciccillu o Ninu o Zarafinu spostavano la barca, alla ricerca di un posto più pescoso. Rumore? Certo solo quello dei remi in acqua, splash, splash, ohi leva, ohi leva. Fin quando il capo barca riconosciuto ed apprezzato- era anche il maestro elementare dei marinai, che, a dire il vero non amavano la scuola- non avesse trovato il nuovo posto dove “ancorare la barca”. Altro giro, altre prove. Altri vincitori? Non era detto. Non si poteva sapere. Mica c’era scritto: i pesci, siamo qui! Dai pescateci”. Ci voleva intuito e soprattutto un colpo di fortuna. Fallito o poco fruttuoso il tentavo della pesca normale, si passava alla fiocina, ma questa era molto molto più complicata e necessitava di una preparazione di giorni e giorni precedenti l’uscita in mare. Non a riva, ma verso quello che noi dicevamo “il mare turchino”. Lontano, lontano dalla riva. Come avrebbe detto Stefano d’Arrigo, in Horcynus Orca, dove “il mare è mare”! Silenzio non altro che silenzio, qualche beccheggio delle onde, una vocina dei pescatori e poi nulla. Il contatto, la visione, il respiro delle acque iodate. No! Fatte che si erano le sei, i primi rintocchi delle campane della Chiesa. Sembrava che fossimo dentro il campanile. Si sentivano meglio che se fossimo stati là sopra! Là sopra? Certo. Mica c’era l’orologio che faceva scattare i rintocchi! Ci voleva “Mastru Micu u sacrestanu” per tirare le corde e far sentire i rintocchi utili anche ai marinai, oltre che alle massaie. Allora gli orologi non abbondavano come adesso, uno, due, tre in ogni stanza. E quando si rompevano le corde perché si spezzavano per il troppo uso? Bisognava salire fino sopra il campanile e suonare il batacchio a mano! Era pericoloso. Sia per l’altezza eccessiva che, soprattutto, perché le scale di legno erano ormai “saraciate” mangiate dalle tarme. E qualche gradino non c’era. Io sono salito più volte, senza dirlo a mio padre. Sprezzante del pericolo. Il mio assistente di azione Cattolica, Don Peppino Stagno, non voleva, ma io, duro, con un minimo di attenzione, lo facevo: salivo le scale. Divagazione. Torniamo a mare. Che spettacolo, che delizia, che meraviglia. Tra una tracina ed un surici, eravamo soddisfatti. Anche perché, individuato il posto, il pescato era più consistente e noi, ai cieli soprani, per la gioia! Alle undici al massimo, bisognava far ritorno a casa. Buttati e già da due ore gli indispensabili maglioni, (Cicciu ‘u palla, venuto una sola volta con me, ne ha dimenticato uno, nero, mi pare) eravamo già in costume da bagno, quello castigato. Né slip, ne bermuda. Il costumino classico. E via all’abbronzatura, a quel punto. E se il mare era nel periodo di “calmeria” nessun problema ad arrivare a riva. D’estate, per la verità, quasi sempre! A riva si saltava dalla barca, si prendevano le “valanghe o falanghe” utili per tirare la barca sulla spiaggia e a colpi di “oh issa, oh issa” la barca veniva tirata. Finito qui? Certo che no. All’arrivo della nostra, come di altre barche, a riva si avvicinavano i bagnanti, specie quelli “forestieri”. Quanto volete per la tracina, me lo vendete il pesce, che bello, fresco fresco! Alcuni ti davano una mano a tirare la barca, altri guardavano per non fare sforzi, come sempre accade. Davano consigli, se non ordini, ma senza mettere un dito! Parcheggiata la barca- non ormeggiata, perché il porto era di là da venire- su un secchio si raccoglieva il pescato e si divideva. Due parti per il capobarca, perché anche pescatore, una parte ciascuno per i lavoranti. Al figlio del capo? Solo la soddisfazione della giornata e l’abbronzatura. E soprattutto la gioia di aver vissuto non meno di cinque ore nelle acque del mare turchino. Impagabile, anche perché le barchette – per il cosiddetto progresso(?) non ci sono più! Quando, oggi, scendo a mare- sempre a venticinque metri da casa- leggo, faccio cinque minuti di bagno e poi? “Naufragar m’è dolce in quel mare”, che non c’è più! Anzi c’è, ma non è quello di allora. Anche se come diceva Giovanni Verga, ne “I Malavoglia, il mare, e quel mio mare, “non ha paese ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare”. Eppure, oggi, c’è chi non lo sa, e non vuole conoscere le leggi del mare! E, addirittura, non scende a mare! San Ferdinando: civiltà di mare!