Narrativa

Storia di una Rosa

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Aria argentina, vergine, settembrina. Il rumore dei Baltimores, degli Spitfire, dei Liberator che pochi giorni prima avevano sterilizzato la terra di ordigni è oramai obliato dal risuonare delle fronde di faggio. L’Aspromonte risuona di squittii imperscutabili, rumori meccanici, viavai incessante di staffette, animali, insetti, uccelli, aerei, uomini, mezzi.

Ciascuno si mobilita. Chiunque abbia gambe e fiato, uomo o bestia che sia, si mobilita. Bisogna rimuovere, ripulire, espugnare, avanzare. La conquista della penisola italiana è cominciata.

I canadesi della 1ª Divisione di fanteria sono arrivati a Gambarie pochi giorni dopo la notte dello sbarco in Calabria, avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 settembre 1943. Sono soldati abituati al caldo infernale delle distese siciliane, a quel pigro inventarsi nuove rotte in una galassia ancestrale e terrestre. Ce l’hanno fatta, anche se molti di loro sono morti di malaria. Appena superate le rive reggine e poi via via, salendo verso l’Aspromonte, i canadesi si sono accorti che le loro divise color kaki, i loro pantaloncini corti, quel berretto sulle ventitre che li faceva sembrare come mille, centomila antropologi in villeggiatura, erano completamente inadeguati alle alture che li aspettavano. Non tutti erano vestiti così: molti avevano pantaloni lunghi e camicie con le maniche rimboccate, che comunque non impedivano loro di battere i denti come delle mitragliette una volta che dai Campi di Reggio si cominciava a salire ancora e inoltrarsi verso il bosco più fitto del Sacro Monte. Tuttavia, alcuni contingenti erano più preparati di altri. Due su tutti: gli Highlanders e i Patricias. I primi erano montanari capaci di battere sentieri con il passo di un Dio o di un animale. Pertanto, si trovavano perfettamente a loro agio tra quelle vie puntellate da voragini abissali, spesso strette a strapiombo sul mare o nelle alture più interne, tra quella gente che brulicava nei sottosuoli, nelle campagne, nelle gallerie allestite come bunker, nelle caverne delle coste coperte da rovi e cactacee spinosissime. Giorni e mesi prima dello sbarco, interi paesi furono redenti dai bombardamenti alleati. Uno degli ultimi, Sinopoli, il 1 settembre, per mano dei Liberator statunitensi, causò trentuno morti tra i civili. Il più piccolo di loro aveva quattro giorni di vita. Per i civili non era scontato intuire quali intenzioni avessero i nuovi invasori. Per la fanteria canadese invece non era facile capire se quelle macerie fossero frutto del lavoro tedesco o del lavoro alleato. La maggior parte dei soldati canadesi lavorava nelle fattorie, altri erano legali, contabili, operai nelle industrie. Gli aspromontani erano in gran parte contadini, pastori, piccoli artigiani, impiegati. Queste furono le persone che si incontrarono in quei giorni. Queste le cose che videro i loro occhi.

Arrivati a Gambarie, i canadesi trovarono un villaggio turistico di tutto rispetto, in gran parte disabitato. Gli ufficiali ne approfittarono per passare almeno una nottata come si deve in una delle numerose villette e chalet di proprietà dei reggini. Questi ultimi avevano eletto quella località a loro buen retiro durante la stagione natalizia o estiva, e in molte case c’era ancora dell’ottimo whiskey. Naturalmente, ciò rinfrancò parecchi soldati, che non avrebbero mai potuto immaginare che in un teatro di guerra simile, per una sera, avrebbero avuto l’opportunità di sedersi comodamente intorno a un camino a bere un drink e a discorrere cortesemente sui pro e contro delle loro recenti esperienze. Ma in realtà ebbero ancora maggior fortuna: l’Esercito italiano, nella fretta della fuga, aveva lasciato sguarnita la fureria. Si trattava di un grande magazzino pieno di vettovaglie, cibo e soprattutto vestiario. Divise del nemico, certo. Maglioni neri, certo. Ma buoni a proteggere dal freddo che in quelle ore cominciava a diventare pungente. I canadesi presero tutto il possibile e lasciarono il resto alla popolazione. La voce che c’era un magazzino sguarnito si sparse per i paesi circostanti. Qualche giorno, e sarebbero accorsi da ogni dove. I canadesi trovarono anche delle biciclette. I soldati italiani le avrebbero volute usare per spostamenti veloci lungo l’Aspromonte, dei blitz fulminei per annientare il nemico con impeto fascista. Non avevano pensato al fatto che ci sono pendenze impressionanti che nemmeno Coppi sarebbe riuscito a superare senza farsi arrivare la lingua sotto ai piedi. Ma un fascista osa. Fino a due giorni prima, il Generale di Divisione Felice Gonnella aveva osato mandare dispacci con scritto: “A Scilla il nemico non può passare. Le strade affluenti a Gambarie sono in nostre mani”.

Sul momento i canadesi non sapevano che farsene di quei mezzi, poi qualcuno ebbe un’idea, complice forse il whiskey. Il Genio militare faceva fatica a realizzare ponti tanto resistenti da far passare i cingolati sopra le voragini lasciate dai tedeschi in ritirata. Con le bici sarebbe stato invece molto più semplice oltrepassarle, e magari raggiungere Delianuova. Il Paese era uno snodo fondamentale per l’avanzata alleata, perché da lì si sarebbe potuto percorrere il crinale di montagna fino a Cittanova e controllare tutta la fascia tirrenica del versante aspromontano. L’idea venne giudicata sensata. Erano mezzi leggeri, perfetti per non cadere vittime del terreno minato. Tedeschi inoltre non ce ne erano: il 71º Reggimento della 29ª Panzer Grenadier era già in rotta verso il Monte Poro, dove, da lì a qualche giorno, avrebbe bombardato immotivatamente il paese di Rizziconi, causando un’oscena strage di civili. In fuga da Bagaladi invece, non molto lontano da Gambarie, proprio mentre alcuni canadesi sorseggiavano whiskey davanti al camino, c’era un battaglione di kamikaze italiani che volevano vendere cara la pelle. Erano parà dell’8º Battaglione della Divisione Nembo, che dopo un veloce scontro a fuoco contro altre truppe canadesi si sparpagliarono in direzione di Santa Cristina. Nelle montagne circostanti il Paese, avrebbero di nuovo incrociato altri reparti canadesi, dando vita all’ultimo combattimento tra italiani e alleati della Seconda guerra mondiale, proprio l’8 settembre. Ma queste sono altre storie.

Torniamo agli Highlanders. La mattina del 5 settembre un gruppo di Higlanders canadesi inforcarono le bici e partirono verso Delianuova. Ci vollero circa sette ore per arrivare: bisognava percorrere la strada con circospezione, soprattutto per evitare il terreno minato.

Verso le tre del pomeriggio, il Paese, prima immerso in un sonno di garofani, si trovò davanti questa lenta e sparuta processione di soldati in bicicletta. Non è detto che furono accolti subito con entusiasmo: avevano maglioni e camicie nere, non va dimenticato, ed era bene mantenersi prudenti prima di farsi prendere dall’entusiasmo per la gente sbagliata. Nemmeno un mese prima infatti i tedeschi in ritirata avevano ucciso a colpi di moschetto una donna di 34 anni, proprio jà ssutta, al Calvario. Una volta che i soldati parcheggiarono le bici, cominciarono a tirare fuori un po’ di cioccolate e a fare delle domande ai pochi che vennero loro incontro. Nel frattempo organizzarono delle staffette per avvisare il Comando a Gambarie. Trascorsa qualche ora, con la gente che via via si faceva più numerosa, arrivarono i Patricias, anche loro in bici. Il loro distintivo era stato disegnato personalmente dalla Principessa Patricia di Connaught, figlia di Arthur, settimo figlio della Regina Vittoria. Il Reggimento si chiamava in suo onore in modo da lisciare il pelo al padre, che ne approvò la costituzione nel 1914 in qualità di Governatore Generale del Canada.

I Patricias hanno la pedalata svelta, si sentono a loro agio tra quelle distese di faggi e poi di ulivi, oramai possono godersi il viaggio senza preoccuparsi di morirne. Per un po’ sono spensierati. Pedalano a gruppetti tra le gole tortuose della via, canticchiano una vecchia canzonetta della Prima guerra che dice: “Mademoiselle from Armentieres/parlez-vous/she got the palm and the croix de guerre/for washin’ soldiers’ underwear/hinky-dinky parlez-vous?”. Il canto si fa sostenuto, le staffette nel frattempo hanno avvisato il Comando di Gambarie che la strada è libera e pulita, il Genio avrà un po’ di tempo in più per gettare i ponti di acciaio lungo le voragini. Il giorno dopo i carri possono partire, un contingente più numeroso segue la strada tracciata dai Patricias, stavolta portano con loro le fisarmoniche, il ferro dei moschetti sull’acciaio dei carri e delle jeep fa da percussione, stavolta arrivano trionfanti in Paese cantando tutta la canzone intera, attraversano il Calvario, Piazza de Nava, salgono lungo via Roma e arrivano nell’altra piazza del Paese, accorrono anche gli sfollati dalle campagne, piano piano si creano sporadiche ali di persone che guardano questi soldati con le divise color kaki, perché comincia a fare caldo e i maglioni neri possono essere messi negli zaini. Cantano i canadesi, tra bici e moschetti che battono sui carri, cantano immemori come garofani: Mademoiselle from Armentieres Parlez-vous/you might forget the gas and shell/But you’ll never forget the Mademoiselle/Hinky-dinky parlez-vous?.

Arrivati nell’altra piazza incontrano i notabili del Paese, rifioriti come garofani dal sottosuolo delle loro coscienze. I canadesi si accampano in un grande, incantevole palazzo con un grande giardino che c’è oltre la piazza, proprio accanto alla casa dove abita la giovane Rosa, che accoglie quegli esseri innaturali guardandoli dal balcone con due occhi antichi e bizantini. La ragazzina scherza col padre, adesso sono gli americani a venire qui da noi. Ma Pasquale non risponde. C’è da guardare, c’è da capire, c’è da studiare cosa fanno. Mastica alcune parole di inglese imparate a Pittsburgh trentacinque anni prima e mai più dimenticate. Le userà per parlarci, per farsi raccontare qualcosa. Non ricorda come si dice carbone in inglese: lo avrebbe mostrato ai soldati, forse ne avrebbero avuto bisogno.

Quando gli americani arrivarono a Delianuova, Rosa aveva quindici anni non ancora compiuti. Era figlia di Pasquale e Maria Antonia, che oltre a lei avevano avuto altri nove figli, sei femmine e tre maschi. Rosa era la terza, e aveva fama di ragazzina svelta e intelligente. Il bottegaio la voleva sempre con sé perché Rosa aveva il dono di avere il peso negli occhi: riusciva a stimare con incredibile precisione il peso delle cose. “Rosa, vidimu quantu pisa”, e Rosa girava intorno alla bilancia, alzava un attimo lo sguardo in alto e pronunciava la sentenza. La casa in cui abitavano era piccola ma confortevole, e si trovava in una via stretta parallela allo stradone principale, tra la Chiesa e il Grande Palazzo. Il padre di Rosa portava il carbonfossile dalla montagna e lo vendeva in Paese. Rientrato dall’America, aveva spostato poco meno di vent’anni prima la diciannovenne Maria Antonia.

Rosa ogni tanto ci pensava al fatto che forse anche lei si sarebbe sposata giovane come la mamma, pensava che da lì a qualche anno sarebbe stata in età da matrimonio e non più una scolara. Il Paese in quei giorni cominciava a ridestarsi, gli sfollati rioccupavano le proprie case, rassicurati dalla presenza degli americani. La situazione prometteva bene. Forse quell’anno sarebbe anche ripresa la scuola, che Rosa aveva frequentato in un altro grande palazzo presente in Paese. Dice che lì c’era un dipinto di una Madonna fatto da un soldato italiano in rotta. Era andata a vederlo, aveva visto quella Madonna disegnata forse con un qualche surrogato di grafite, proprio in quella che era stata la sua aula.

Un’Ave Maria e la vita ricominciava. La stagione si preannunciava faticosa ma nuova, libera. Rosa si sentiva intrepida. Gli americani facevano cinema lì accanto, soprattutto dopo che finalmente era uscito fuori l’annuncio dell’armistizio: “la ìmpari lotta contro la soverchiante potenza avversaria”. A Rosa erano rimaste impresse queste parole. Significava che gli americani pesavano di più degli italiani. Quella soverchiante forza avversaria era adesso di fronte a lei, con le bici e gli sguardi ora divertiti ora preoccupati, ora stanchi ora sorridenti, ora indifferenti ora curiosi. Progettavano l’avanzata, in tandem con L’VIIIª Armata inglese. Bisognava dirigersi presto verso Santa Cristina, Oppido, Cittanova. Alcune colonne si erano già mosse subito dopo l’arrivo in Paese ma per ora il quartier generale rimaneva lì, almeno finché non si fossero consolidate altre postazioni lungo il crinale aspromontano. La mattina dell’8 settembre era arrivata da Santa Cristina la notizia di quei parà della Nembo che avevano venduto cara la pelle prima di arrendersi. Di italiani ce ne erano ancora in giro, e anche di mine. Bisognava dosare i canti e gli entusiasmi.

La popolazione in quei giorni si preoccupava invece di accaparrarsi cibo, vestiti e vettovaglie, le cioccolate americane non bastavano. Si diceva che molti cristinoti si erano riversati in montagna a prendersi i paracadute lasciati lì dagli americani, per farne vestiti. Bambini color kaki, come piccoli canadesi, cominciarono a vedersi girare per le strade di quel Paese: andare in trasferta nei teatri di guerra poteva essere una buona idea.

La vicina di casa di Rosa, la signora Giuseppina, mentre si scambiava cose con Maria Antonia da un buco fatto nella parete interna che univa le due abitazioni, lo aveva detto: “dici ca a Gambàri avi nu magazzinu chinu i ‘rrobbi”. Si riferiva alla fureria già saccheggiata dai canadesi a Gambarie, la stessa dove i militari avevano recuperato maglioni e biciclette. La voce di quella fureria piena di cose utili da prendere gratis si era presto sparsa anche in Paese. Era vedova, Giuseppina. La figlia Assunta, di trentaquattro anni, era mamma di un bimbo. E poi c’era il fratello piccolo di Assunta, che tutti chiamavano Matu. Serviva andare. Giuseppina aveva passato parola a Maria Antonia, pur sapendo che a loro la cosa non interessava: Pasquale per fortuna riusciva a mantenere la famiglia decentemente. Ma a Giuseppina avrebbe fatto comodo avere due braccia e due gambe in più, se magari Maria Antonia avesse avuto la bontà di mandare con loro a Gambarie uno dei suoi figli, sarebbe stata una cosa buona. Si fa avanti Rosa. Nessuno in casa si stupisce della sua candidatura, è lei l’intrepida di casa. Così nello spazio di poco tempo partono tutti e quattro: Giuseppina, Assunta, Matu e Rosa. È l’11 settembre 1943.

“Ma’, dassu zocculi ccà ca ‘a scàza caminu cchiù sverta”. Rosa torna indietro dopo avere fatto pochi metri: preferisce andare scalza, le scarpe potevano essere un impiccio e rallentare il cammino. Già dal Paese ce ne sono tanti che stanno andando in pellegrinaggio verso la fureria e bisogna fare alla svelta prima che si perdano la camminata.

Màrciano a ritroso, lungo la strada percorsa qualche giorno prima dai canadesi. Nel tragitto ci sono tante altre persone, a Rosa sembra uno di quei pellegrinaggi che, negli stessi giorni prima della Guerra, si facevano verso la Madonna di Polsi. Alcuni cantano degli inni a Maria, a bassa voce, per scandire il passo. Il loro canto è lontano dal trionfalismo delle marce alleate: è un tono più quieto e materno, come un congedo prima di un lungo sonno. Il contesto cambia le espressioni dei volti, che fuori dai confini del Paese sembrano adesso esotici, forestieri. Facce paesane si confondono con altre anglosassoni sui carri: facce brune, castàne, velate talvolta da un impeto di sveltezza, preoccupazione o di quieta apprensione. Si incontrano persone con sacchi pieni di pantaloni, qualche paio di scarpe, coperte, bretelle. Tutto serve, tutto può essere utile. Rosa prende il viaggio come un impegno. Tiene d’occhio il piccolo Matu che le corre appresso mentre, pochi metri dietro, Assunta e Giuseppina seguono, svelte per come possono. Rosa fa attenzione a Matu, e fa attenzione a non farsi male ai piedi. Va veloce, ha due trecce lunghe e strette e un fisico snello, è leggerissima, pesa tutto con gli occhi, pesa i passi e controlla la strada: chissà se si troverà ancora qualcosa, chissà se magari troverà una di quelle belle biciclette o qualcosa di utile per lei? È un magazzino militare, certo non ci sono oggetti femminili, ma già Rosa pensa a cosa potrebbe magari ricavare dalle stoffe senz’altro presenti: un fiocco per i capelli? ‘Na vesta? Chissà, ci avrebbero pensato mamma e le sorelle a trovare qualche cosa di bello da farci.

Lungo la strada però, di tanto in tanto, appaiono ancora oggetti insoliti che silenziano i canti con rimbombi potenti, marziali. Non sono arbusti, non hanno una forma naturale o riconoscibile. Potrebbero essere oggetti abbandonati dalla caduta di un razzo nello spazio. Ma allora, nel settembre ‘43, il cielo era cielo, non era ancora lo spazio. Qualcosa di caduto dall’altro o disseppellito dalla terra durante quel frenetico transitare, qualcosa di ignoto e sconosciuto, capace di scatenare una potenza di fuoco limitata ma mortale. Ordigni, bombe, mine dalla forma di giocattoli. Qualcosa, più probabile una mina tedesca disseppellita, meno probabile un ordigno proveniente da mezzi americani, attira qualcuno dei quattro verso di sé; oppure no, il gruppo si è imbattuto suo malgrado, durante quel viaggio a ritroso. Ciò che riguarda l’incontro tra i quattro e l’Ignoto non si saprà mai con certezza, quello che si sa è che un’esplosione fa schiantare al suolo Assunta. Le schegge colpiscono Giuseppina e il piccolo Matu, che rimangono lievemente feriti e storditi. Anche Rosa viene investita dall’Ignoto: il colpo le spazza via un piede gettandoglielo lontano. I tre feriti vengono portati di corsa verso il primo ospedale da campo raggiungibile, che è a Reggio. Per Assunta non c’è invece nulla da fare. Lascerà un figlio orfano.

Nel frattempo i deliesi presenti a Gambarie portano la notizia in Paese. Lo dicono a Teresa, sorella di Maria Antonia. Quest’ultima sta stendendo i panni al balcone, vede la faccia sfigurata della sorella da lontano e capisce che qualcosa è successo, è successo a Rosa. Allerta tutti in casa, Pasquale si precipita a Gambarie ma l’unica cosa che riconosce nel luogo dell’esplosione è il piede scalzo di sua figlia. Straziato, corre con i parenti verso Reggio. I luoghi sono distanti decine di chilometri tra di loro, non si arriva in un momento, non basta più una bici. Rosa lo sa e lo sa anche Pasquale. Al suo arrivo all’ospedale da campo la piccola è già morta, dopo che il suo sangue giovane ha irrorato di innocenza questi boschi silenziosi e potenti.

È il 13 settembre 1943.

L’ultima persona che le ha parlato è stata una donna. Dice che ha sentito la ragazzina raccomandarsi di dire alla mamma di non piangere. È l’inconsapevole agiografia messa in atto per attutire il colpo o forse è la verità. La burocrazia invece ha micidialmente consegnato agli archivi un certificato di morte in cui Rosa viene identificata con questa dicitura: “cittadina italiana di razza ariana, scolara”.

Nei giorni seguenti alla morte di Rosa, i canadesi continuarono la loro traversata lungo la Calabria, lasciandosi dietro le bici, i canti, le tragedie, i sorrisi, i timori, le inquietudini, la rabbia, la felicità di mille storie dormienti come garofani tra le splendenti distese della Grande Narrazione o disperse nell’aria vergine e settembrina di quei giorni o sepolte nei cuori eterni di Madri dalle mani tremolanti.

A noi il dovere di ripercorrere a ritroso questo cammino.

A noi il dovere di rianimare ciò che è stato obliato.

Il racconto fa parte del libro “Umili racconti di fatti eroici” in uscita a ottobre 2021 presso Bertoni Editore.

Dipinto in copertina: Lilla Yale, “Natura morta”.

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