
Gennaio 2014, Zuhair vive con il fratello e la madre nella sua casa di Bengasi. Tre anni prima la guerra civile aveva portato alla destituzione di Gheddafi, d’un tratto sembrava fosse tornata la libertà per il popolo libico, ma era solo l’inizio di un nuovo caos. Dopo poco tempo arrivarono “loro”: «Un giorno li abbiamo visti camminare per le strade, la gialabia lunga fino ai piedi, il turbante in testa, ci chiedevano di recitare il Corano, volevano sapere di chi fossimo figli» – mi racconta Zuahir mentre è seduto in terra su un tappeto grande quanto tutta la stanza, rivive quei giorni in cui cominciò l’occupazione della città da parte delle milizie islamiche dell’Isis – «Costringevano le donne a portare il velo. I poliziotti e gli uomini in divisa furono i primi a essere ammazzati». Là fuori posti di blocco, le esecuzioni sommarie. Lui rischiava la vita tutti i giorni, dovendo necessariamente uscire per portare dal dottore il fratello malato. Per evitare problemi si era fatto crescere la barba, indossava la veste lunga. La mamma temeva che per qualche giorno non sarebbero più rientrati a casa. Il rumore dei colpi d’arma da fuoco era continuo. L’occupazione si faceva sempre più violenta. Vivevano combattuti fra lo scappare da casa o aspettare l’evolversi degli eventi. Per giorni, tutte le sere, si sono detti che non potevano abbandonare tutto quello che avevano, fra le lacrime sceglievano di restare ancora e resistere. Ancora un’altra notte a Bengasi.
Roma – Tunisi – Bengasi
Ho conosciuto Zuahir all’aeroporto di Tunisi, nel tunnel che mi portava dentro l’aereo per la Libia. Saliti sull’aereo dal finestrino vedo le luci delle barche sul mare, sembra così calmo. Mi viene da pensare ai racconti di mio nonno Giovanni, che nel ‘42 partecipò ad una missione della marina militare italiana a Tripoli. Mentre mi trovavo tra i miei pensieri mi avvicina Zuahir, il ragazzo che ho appena conosciuto nel finger dell’aereo, mi mette in mano un biglietto con i suoi contatti, è un interprete, parla benissimo l’italiano e si dice disponibile ad aiutarmi. Non lo fa per soldi, lo sottolinea più volte, e con queste parole dimostra di conoscere bene gli italiani. Il velivolo è pieno di invalidi, anziani, storpi. Tutta gente scappata dalla Libia per trovare la speranza di una cura nella sanità tunisina. In Cirenaica non ci sono servizi sanitari sicuri, il nostro volo sembra più un aereo diretto a Lourdes, un rimpatrio di feriti da un campo di battaglia. Quando atterriamo, Bengasi è sferzata da un vento freddo, il termometro segna 9 gradi. Sono le 3 della notte quando arrivo sul pulmino, quel poco che riesco a vedere, scostando le tendine rigorosamente chiuse, sono strade deserte e sparuti posti di blocco. Soggiorniamo all’undicesimo piano del Tibesty Hotel, l’unico funzionante in città. La penombra è rotta solo dal rumore dei vetri scossi dal vento, l’aria condizionata non funziona. La struttura ha tutta l’impressione di essere stata chiusa per mesi, di essere per la gran parte inutilizzata. Poche e semplici raccomandazioni: non uscire mai fuori da soli, non affacciarsi da nessuna finestra, non tenere le tende aperte, non lasciare la macchina fotografica in vista durante gli spostamenti.
Case senza muri
L’indomani Zuahir mi porta con la sua macchina nel centro di Bengasi. Il parabrezza è lineato in più punti, contro le leggi della fisica resiste agli scossoni provocati dalle buche, le ruote affondano nei laghi di fango risultato della notte di pioggia e vento. Vedo delle gru che svettano ancora dentro lo stadio in costruzione, i lavori sono fermi da anni, fermi per sempre. Non ci sono cartelli stradali, sulla via non ci sono regole, passa prima chi ha i riflessi più pronti. Ci lasciamo alle spalle quella che fu la residenza di Gheddafi, sulla sinistra si apre il porto, e poi le macerie. Il centro città è una montagna di cemento senza forma. Ci sono i muri senza tetto, le case senza pareti, le lastre di metallo che coprono i crateri dei colpi di mortaio e scale che non portano da nessuna parte. Cemento piegato come fogli di carta, edifici bucati dai razzi, muri disegnati dai fiori di piombo.
«Fossimo passati da questa strada ai tempi dell’occupazione dell’Isis saremmo già morti, ma molto prima di arrivare fin qui». – Zuahir ricorda ancora quei giorni, guardava i morti ammazzati e sentiva i conati di vomito. Ha resistito un mese prima di scappare sulle montagne con la sua famiglia. L’Isis era asserragliata nei palazzi del centro, assediata dalle forze liberatrici del generale Haftar. Nelle strade in cui cammino si combatteva porta a porta, gomito a gomito, fra quelle vie in cui stiamo camminando si raccoglievano i morti. La guerra contro lo Stato Islamico durò tre anni. Bengasi era stata liberata ma era ormai un cumulo di macerie. Zuahir mi ha raccontato che quando tornò a casa sua non c’era più nemmeno un mobile, l’edificio era vuoto. Avevano rubato tutto, anche i fili elettrici dalle tubazioni. Ed eccoci arrivare lì davanti, l’ingresso è un vialetto di fango, siamo fuori dalla città, sulla strada che collega Tripoli a Bengasi. Lascio le scarpe sulla soglia ed entriamo in un grande salone. Un tappeto, una stufa e un divanetto – «non abbiamo i soldi per ricomprare i mobili», sulla porta il quadro di Re Idris, l’ultimo sovrano prima del quarantennale regno di Gheddafi. In una stanza ci sono ancora i segni dei proiettili sui muri, un buco di mortaio sul tetto. La casa era stata occupata, violata, distrutta. In un angolo vi trovarono feci umane, a terra indumenti intimi femminili, sul muro una scritta: “Questa casa appartiene ai fratelli mussulmani”. Sediamo in terra, mescolo i ceci al cous cous e alla carne d’agnello: «mio padre lavorava per il rais, ma non condivideva i suoi ideali, lavorava e basta» – Zuahir ci tiene a sottolineare questo concetto, la sua famiglia non aveva mai simpatizzato per Gheddafi, come molti qui in Cirenaica, gli occhi di Re Idris ne sono testimoni. «Affama il popolo come i cani e vedrai che ti seguirà», così parlava il rais. Il padre di Zuahir era un generale dell’esercito libico, comandante di uno squadrone dell’aeronautica: «quando scoppiò la guerra civile, Gheddafi gli ordinò di bombardare Bengasi, mio padre rifiutò di farlo, non avrebbe mai distrutto la sua città natale, per questo venne imprigionato». Riuscito a fuggire scappò a piedi per 200 chilometri da Tripoli a Misurata, giunto in città passò fra le file dei ribelli; la strada verso casa è la più insidiosa se casa non ti appartiene più. Al fronte trovò la morte, a 50 anni.
«Prima la guerra civile, poi l’occupazione dei terroristi islamici, capisci perché oggi anche in mezzo alle macerie e ai contrasti almeno ci sentiamo liberi». La mia permanenza termina lì con un caffè fatto con la moka. È la mia ultima sera a Bengasi. Il sole basso all’orizzonte, le macerie alle spalle e il mare davanti, il blu di fronte e il deserto dietro.
Ripenso alle storie di anime migranti affidate al mare, al profumo delle donne velate, all’odore del tabacco sui vestiti, al sapore del pane, alla polvere che ti entra in macchina se apri il finestrino, alle scarpe dalle punte consumate, il parabrezza di Zuahir, le case sfondate. Mi vengono in mente anche le storie sul periodo bellico che raccontava mio nonno, che finivano tutte con un augurio. Fino a quando ha avuto un filo di voce ha sussurrato che durante la vita potremo affrontare periodi di crisi economica, povertà, malattie, ma fra tutte dobbiamo sperare sempre di non vivere mai la guerra. In quel silenzio, con il mare di fronte e le macerie alle spalle, c’era anche il suono della voce di chi in guerra ha trovato la fine per dare la libertà ai propri figli e nipoti. C’erano le voci di chi a Bengasi sta tornando per cominciare una nuova vita, di chi ha riparato un tetto, ha rialzato una saracinesca. La voce della speranza che sovrasta le macerie. La luce in fondo al tunnel in un’altra notte a Bengasi.
Foto di Matteo Arrigo