
Il gioco è sempre stato un elemento poco considerato in sociologia, ma moltissimo in antropologia. Eppure gli studi più importanti e pioneristici sono stati quelli di Callois e Huizinga, un sociologo e uno storico.
Callois diceva che erano quattro le caratteristiche del gioco che gli esseri umani tendono sempre a ricercare nelle proprie esperienze adulte, come se fossero degli esercizi pratici per affrontare l’esistenza: l’imitazione, la vertigine, l’alea e l’agon.
Nel gioco il bambino si esercita a stare al mondo nella sua intima condizione di essere umano. Sfida la sorte, imita, combatte, si stordisce. Riedifica un proprio immaginario con eleganza (a mio avviso, poche cose hanno più grazia di un bambino concentrato nel suo gioco). Prendiamo alcune pose dello Yoga, che in origine sono delle imitazioni giocose di posture animali che i bimbi probabilmente osservavano nella foresta, e che solo dopo sono diventate oggetto di osservazione adulta.
L’adulto gioca in continuazione, anche se pensa di non poterlo o doverlo fare. Gioca nella dimensione dell’agon e dell’alea, meno in quella dell’imitazione e della vertigine (va detto che l’adulto sublima questi quattro elementi nella sfera erotica e sessuale). È felice quando per lui il lavoro è un gioco (questo lavoro, che sia il neurochirurgo o il tassista o lo spacciatore o il marinaio, “mi appassiona”, “mi diverte”). Va in crisi quando, appunto, prende le cose “troppo sul serio”, che è un modo stupido per dire che “si sta allontanando dalla dimensione del gioco”. Va in crisi quando pensa che concepire la vita come un gioco voglia dire essere irresponsabili, e cioè il gioco diventa “prendersi gioco” di qualcuno. Va in crisi quando pensa che il gioco sia un gioco, e non capisce che in realtà il gioco esige concentrazione, calma, forza, astuzia, intelligenza, cose che non hanno niente a che vedere con la superficialità.
Non è un caso che uno dei principali archetipi della nostra cultura è Ulisse, che in continuazione giocava coi suoi avversari. Non è un caso che una delle metafore più usate nella nostra società è “giocare una partita con”. Ancora un gioco, ancora un perimetro in cui si esercita una contesa.
Noi siamo intrinsecamente gioco. Quest’ultimo non è una fase della nostra esistenza, relegata alla retorica piccolo borghese dell’età della spensieratezza contrapposta all’età della responsabilità. Il gioco infatti è un elemento preculturale, come ci dice Huizinga, poiché anche gli animali giocano, e lo fanno per tutta la vita.
Nessun essere umano sarà mai depresso mentre gioca.
Nessuno.
C’è del Mistico, nel Gioco.