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Delianuova, 1735. Una fiaba.

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È questa una fiaba deliese, nell’Ottocento a quanto pare molto conosciuta in zona e oramai dimenticata:1

Antonio Galone era un ragazzo di Delianuova rimasto orfano dei genitori. La mamma, quando era in vita, lavorava come massaia presso la famiglia di Francesco Rechichi, che era un ricco possidente terriero. Alla morte dei genitori, Rechichi si offrì di mantenere e crescere Antonio, trattandolo come un figlio.

All’età di 22 anni, Francesco decise che era giunta l’ora per il figlioccio di maritarsi. Così combinò il fidanzamento tra Antonio e Micuccia, cioè Domenica, una giovane ragazza figlia di un agricoltore che lavorava alle dipendenze di Francesco. Micuccia doveva essere una ragazza molto bella, già molto corteggiata da Antonio: “dal colorito bruno, dalle forme massicce, dalle trecce folte e copiose, dagli occhi neri, grandi e irrequieti esprimenti intelligenza e svegliatezza”.

Tra i compiti di Micuccia c’era anche quello di fare da compagna, o da dama, secondo l’uso da parte della “borghesia” di allora di copiare le abitudini nobiliari, della quindicenne Caterina, figlia di Francesco e quindi sorella acquisita di Antonio. Quest’ultimo stravedeva per lei, e la ragazza era considerata un esempio di virtù nella Comunità.

La relazione tra Antonio e Micuccia ebbe un felice epilogo nel matrimonio tra i due, celebrato nell’antica chiesa della Madonna delle Grazie di Pedavoli (il borgo che, insieme a Paracorio, nel 1878 avrebbe costituito Delianuova, n.d.r.). Il ricevimento fu svolto poi a casa dei Rechichi, e per l’occasione Caterina fece dono a Micuccia di una catenina con un crocefisso e una medaglietta della Madonna che aveva fatto precedentemente benedire dal Parroco.

Alle nozze furono invitati anche gli amici storici di Antonio: Giasone Italiano,  Mansueto Licastro, Cosimo Rechichi e il diciassettenne Annio Versace, che era il più giovane della cricca e per la sua corporatura era soprannominato “Torello”.

Giasone era un possidente di molte terre e di un ricco gregge, ed era un instancabile lavoratore. Cosmo era un agricoltore molto capace; Mansueto era quello istruito del gruppo, poiché grazie a una ricca eredità aveva potuto studiare al Seminario di Oppido Mamertina; Annio lavorava insieme ad Antonio nei possedimenti di Francesco.

Gli anni successivi al matrimonio furono molto felici per la famiglia Rechichi, la coppia ebbe due figli e conduceva una vita tranquilla e laboriosa. Caterina nel frattempo aveva compiuto diciotto anni e si avviava a diventare oramai una donna.

Senonché, a un certo punto alcune ombre turbarono la socievole allegria di quella vita. I timori che alcuni briganti potessero prendere di mira la dimora di Rechichi si fecero sempre più pressanti. Di queste inquietudini se ne cominciò a parlare sempre più spesso fino a diventare un quotidiano tema di discussione. Una volta in particolare, Giasone e la sorella andarono a trovare Antonio e Micuccia per portare loro formaggi e latticini e, insieme alle madri di Mansueto e di Cosimo e alla famiglia Rechichi, si ritirarono nel salotto per conversare. In quell’occasione, Caterina espresse un brutto presentimento su quanto stava per accadere e già da tempo Francesco si lamentava perché non esistevano più i tempi di una volta, in cui si poteva girare tranquilli, e che adesso bisognava addirittura organizzare delle bande armate per poter stare un po’ in pace.

Trascorsero alcuni giorni da quella riunione, fino a che una notte, in effetti, due briganti provarono a penetrare nella casa dei Rechichi. Annio e Antonio però furono rapidi nel contrastarli: Antonio addirittura sparò loro contro e ne uccise due. Nella caduta, un colpo partì dalla pistola di un brigante e andò a vuoto. La mamma di Caterina accorse subito e svenne per la paura. Solo a quel punto comparve Caterina che, alla vista del corpo della madre e destata dai colpi dei proiettili, temendo inoltre di essere rapita e oltraggiata, prese un coltello e se lo conficcò nel cuore. Uno dei briganti riuscì a scappare e si diresse verso le montagne.

A seguito di ciò, Annio salì fino a Carmelìa, dove Giasone aveva le terre, per avvisare l’amico e per capire se fosse possibile intercettare il terzo brigante, fuggito allo scontro. E in effetti riuscirono a trovarlo. L’uomo, dall’accento cosentino, raccontò il misfatto ai due che si finsero banditi. Dopodiché, Annio gli si gettò contro e lo uccise strangolandolo. I due infine si sbarazzarono del cadavere gettandolo in una gola e si separarono. Annio rientrò in paese, dove rimase accanto ad Antonio per i giorni seguenti.

Ma c’era una cosa che, tra la altre, non dava pace ai giovani ragazzi, e ad Antonio per primo: il fatto che i due cadaveri dei briganti fossero stati seppelliti proprio vicino alla salma di Caterina. Così decisero, una notte, di trafugare le due bare e di disfarsene gettandole nel vallone di Gelomagro, che già allora era conosciuto per essere un ricovero maledetto perché accoglieva le salme dei bimbi morti senza battesimo.

E così finisce la storia.

La morte di Caterina è frutto di una reazione eccessiva, evidentemente stonata nell’intreccio (ma una scena dei briganti che tentano di rapirla, e lei che fa per ucciderli ma finisce uccisa, non era ossequiosa della figura allora in voga della donna come soggetto sacrificale dell’altrui peccato) e va contestualizzata nel clima melò del Romanticismo ottocentesco. Risulta sempre affascinante il modo in cui si intersecano miti letterari e popolari: la morte romantica di Caterina, appunto, ma anche l’atavica paura dello straniero, identificato con il brigante cosentino, e il clima arcadico del villaggio, nel quale tutto segue un preciso ordine definito – il piccolo borgo antico di un secolo precedente, il Settecento, l’ordine del quale è endogeno, e mai dovuto a una responsabilità esterna che non sia quella religiosa, che qui viene curiosamente omessa.

Epifànico il riferimento al vallone maledetto, sul quale mi piacerebbe reperire più notizie – risuonano le voci inquiete del Taigeto spartano e della rupe Tarpea.

1Ce la racconta Amato Licastro nel libro “L’anima di Antonio Galone”, Polistena, Stabilimento tipografico degli orfanelli, 1933.

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