
- 2. La moda come arte decorativa
- 1. Fausto Squillace e le sue riflessioni sulla moda
Nel 1912, in tempi non sospetti, uno studioso di origini calabresi di nome Fausto Squillace scrisse un libro pioneristico nel campo degli studi sociologici sul fenomeno della moda.
Il saggio, breve ma molto dettagliato, si intitola appunto “La Moda” e dal 2010 è edito dalle Edizioni Nuova Cultura di Roma.
Di Fausto Squillace riportiamo quello che ci riferisce Angelo Romeo nell’introduzione all’opera: nato a Sondrio nel 1878 da genitori calabresi immigrati, muore a Catanzaro nel 1920. Si laurea in giurisprudenza e lavora come avvocato insieme al fratello Odoardo. Insieme alla professione di avvocato, Fausto porta avanti una febbrile attività giornalistica che all’estero fu apprezzata anche grazie a diverse traduzioni dei suoi volumi. In Italia Squillace fu attenzionato da un numero ristretto di studiosi. Tuttavia, tale numero è stato sufficiente a fornire ulteriori informazioni sulla sua attività.
Sappiamo per esempio che questa sua larga riflessione sulla moda è frutto di una serie di conferenze che tenne come giornalista. Squillace infatti non può effettivamente essere considerato un sociologo tout court, anche perché nel 1912 la disciplina, sebbene oramai perimetrata nei suoi fondamenti, non poteva dirsi ancora pienamente avviata e definita a livello di figure professionali ben inquadrate, o almeno non in Italia. Pertanto parleremo più che altro di un protosociologo, o di uno studioso. Anche perché Squillace produsse diverse altre opere di grande interesse. Senza elencarle tutte, citiamo “Lo scopo dell’arte” del 1898; una memoria per il V Congresso internazionale di antropologia criminale di Amsterdam dal titolo “Pazzia criminale in Calabria” del 1901, una “Critica della sociologia” del 1902; “La base economica delle questione meridionale” del 1905, “La scienza sociale e le sue parti” del 1909.
In quell’epoca era ancora forte il dibattito sui confini epistemologici che spettavano a una scienza sociale. Nel contempo, era il periodo in cui si raccoglieva l’eredità positivista applicandola anche a fenomeni culturali prima ritenuti al di fuori del perimetro scientifico. Pioneristico sulla moda fu un articolo di Georg Simmel, del 1910, nei confronti del quale il lavoro di Squillace non è da meno, se non per il fatto che è stato colpevolmente poco considerato, forse per una questione di puerile soggezione nei confronti dei padri costituenti della disciplina. Squillace ha letto Simmel ma, dimostrando anche una ammirevole comprensione del dibattito e della letteratura dell’epoca sul tema, cita anche un saggio antiquato dello Spencer, un capitolo frammentario del Tarde, un paragrafo di psicologia sociale del Ross come uniche produzioni scientifiche che i sociologi hanno generato sulla moda. E le passa in disamina una a una, dedicandovi l’intero primo capitolo e concludendo poi con una panoramica etimologica sul termine “Moda” che spazia dal tedesco all’ebraico, dal francese al celtico, dal latino al basco. Squillace definisce la moda, freddamente, come un fenomeno sociale di origine psico-collettiva di carattere estetico; è una forma d’arte, e più precisamente, d’arte decorativa applicata al corpo umano.
Per chiarire questa definizione lo studioso parte da lontano, e cioè dalla teoria dei tipi collettivi che, a sua volta, genera tipi collettivi specifici in date culture. Per “tipo collettivo” Squillace intende il carattere di un determinato clima storico e sociale che si esplicita in professioni, classi sociali, organizzazioni specifiche di una società. Nasce quindi il tipo collettivo dell’artigiano o del commerciante di stoffe o dell’immigrato o del letterato o del guerriero, a seconda di come una società si struttura. Ma vi sono anche tipi collettivi più specifici, cioè appunto mode, che determinano il funzionamento di una società: vi era un tempo in cui era di moda suicidarsi con l’arsenico, altre volte lo si faceva con la corda. Ai tempi di Erasmo e a quelli di Voltaire era di moda ridere del papa e dei papisti, scrive Squillace. Ecco, per questo motivo lo studioso definisce la moda come un fenomeno artistico che riverbera il tipo collettivo della bellezza umana: e perciò dobbiamo fermarci all’arte, e specialmente al tipo collettivo della bellezza umana, che è quello che interessa pel tema speciale della moda. Ed allora è facile constatare che ogni popolo, ed ogni epoca dello stesso popolo, ha avuto un proprio tipo di bellezza: il tipo femminile dipinto da Leonardo da Vinci non è quello del Perugino o di Raffaello; il tipo dell’amante pallida e sognatrice del romanticismo non è quello della vergine forte dell’arte imperialista (…); il tipo o l’ideale della Bellezza umana e dell’Arte è stato sempre e sarà relativo al tempo e al luogo, come ogni altra manifestazione sociale.
La bellezza umana, prosegue Squillace, è governata da criteri estetici, psicologici ed economici, che la definiscono di volta in volta come tipo. Risulta interessante il criterio economico, perché è un aspetto che all’epoca non era molto scontato toccare, essendo ancora in voga un approccio romantico, se non neopsicologista, al tema. Il criterio economico infatti è determinato dalla rarità, cioè il principio in base al quale si ritiene bello ciò che è raro. Si tratta di un argomento che Squillace toccherà in seguito, quando si occuperà del lusso, altro tema niente affatto scontato all’epoca.