
L’estensione delle pratiche economiche all’aspetto esistenziale delle persone, tipico dell’attualità occidentale, comporta effetti molto significativi e invasivi, seppur mascherati da quel perbenistico silenzio (la riservatezza) che ci rassicura come bambini spauriti sul fatto che abbiamo ancora una vita privata anche quando in effetti quest’ultima non è altro che un simulacro.
Uno degli esempi a mio avviso più rilevanti di questo fenomeno è la seduzione per l’etichetta. I social e i siti di dating sono impostati in modo da realizzare un’etichetta delle persone come se fossero prodotti (gusto sessuale, origine, età, hobby, lavoro, gusti alimentari. Sembra di leggere l’etichetta di un prodotto alimentare o di un vestito, manca solo la data di scadenza). Tale atteggiamento è poi confermato dall’esposizione in vetrine virtuali in cui controintuitivamente il soggetto non cerca un altro soggetto, ma cerca un oggetto funzionale a determinati usi: lo voglio così e così. Come se fosse un elettrodomestico: un qualcosa che deve funzionare come dico io. Un prodotto, insomma, con finalità pratiche. Altrimenti c’è il reso, un diritto di recesso, di restituzione del prodotto umano non conforme. Si capisce come in una dinamica così la riservatezza sia insensata, così come sarebbe insensato garantire la privacy a un ventilatore. Si tratta infatti della stessa dinamica di selezione di un prodotto di consumo su Amazon – e su questa dinamica Fromm ha scritto pagine distopicamente anticipatorie già negli anni Cinquanta, per esempio nell’Arte di amare. Nulla di nuovo insomma, se non il fatto che tali dinamiche hanno delle ricadute attuali anche sulle forme di etichettamento del dissenso (cioè del prodotto tossico, scaduto, da ritirare dal mercato e da buttare al macero).
Una delle forme di etichettamento del dissenso più pervasive nasce a fine anni Novanta con la retorica del NO che anticipa il sostantivo che tematizza il tema del dissenso stesso: no global, poi no tav, no ponte, fino ai no mask e ai no vax per ricordarne alcuni. Curioso come tale retorica nasca proprio in reazione a un testo fortemente critico, che era No logo di Naomi Klein.
Ora, al di là dei singoli temi sui quali si esercita il dissenso, io vorrei provare a fornire un riferimento storico a questo meccanismo di espulsione, denigrazione, criminalizzazione del dissenso, che è tutto antropologico e non culturale. La differenza nella nostra cultura occidentale rispetto ad altre è la forma di legittimazione morale che i media si autoconferiscono, decretando cosa sia giusto e cosa sia sbagliato ma senza che nessuno li abbia investiti di tale potere. Questa è l’anticamera di una forma di mediocrazia che prevarica sulla dinamica democratica fino a soffocarla.
Tale atteggiamento è portato avanti con stolta convinzione anche dalla politica istituzionale e dai partiti di volta in volta al governo, e può avere conseguenze molto gravi sulla vita democratica di un paese (anzi, le sta già avendo).
Ma veniamo alla parte storica, per forza di cose sintetizzata: in greco antico, il maggio era Θαργηλιών, Thargelion. I primi del mese si svolgevano le Thargelia, feste in onore di Apollo. Come gran parte delle feste religiose, erano organizzate secondo rituali precisi, uno dei quali era il sacrificio tramite purificazione. L’atto sacro consisteva nell’eliminare le nefandezze e le sventure che avevano colpito la Pòlis: pestilenze, ingiustizie, un raccolto andato male. Venivano dunque selezionati due individui, spesso un uomo e una donna, scelti per il loro aspetto fisico: dovevano essere tra i più ripugnanti e stupidi tra gli esseri, potevano essere uomini o donne di malaffare o schiavi. Quella coppia di esseri considerati spregevoli veniva nutrita e pasciuta a spese della comunità durante tutto l’anno.
Poi quei giorni di maggio, a seconda se l’anno precedente fosse stato o meno propizio, veniva inghirlandata con corone di fichi bianchi o neri, ancora nemmeno giunti a maturazione e, nel migliore dei casi, veniva allontanata a calci fuori dalla città o lapidata. In anni particolarmente sfortunati in cui la popolazione era già provata e tesa, i due Φαρµακoι, pharmacòi, così venivano chiamati, venivano pestati a sangue, bruciati e i loro resti carbonizzati ridotti in polvere e gettati nel mare. Rituali simili sono presenti in tutte le culture: l’espulsione dell’essere estraneo è parte del rituale di coesione di una comunità. Spesso tale rituale è stato associato a quello del capro espiatorio, della devotio romana, dell’ostracismo. Negli Stati Uniti, sicuramente fino alla prima metà del secolo Ventesimo, capitava che ogni tanto una persona di colore venisse inseguita e circondata da civili, presa e impiccata a un albero perché ritenuta colpevole di qualche presunto crimine. In alcuni casi veniva anche scattata una foto ricordo.
I meridionali (come tutte le categorie di immigrati, dai “barbaroi” in avanti), per molti anni, sono stati i pharmacòi dell’Italia intera e non solo, se pensiamo all’emigrazione negli USA. Così gli omosessuali. Adesso lo sono i neri africani e in generale chi ha la pelle più scura della nostra, anche se il nostro ripugnante perbenismo da mentecatti ci impedisce di ammettere di essere mossi da un pensiero tanto osceno.
Recentemente, tale etichettamento si sta fascistizzando sempre di più nei termini di igiene dell’opinione e di cancel culture anche su temi oggettivamente divisivi come i conflitti militari o determinate scelte politiche, e proviene anche da ambienti considerati radical e di sinistra, che quindi hanno una presunta legittimazione culturale in chiave progressista pur producendo, nei fatti, politiche reazionarie. Questo fenomeno naturalmente può articolarsi solo se esistono leader politicamente inconsistenti, e oggi ve ne sono in abbondanza.
Ecco, davanti a queste forme di neofascismo della doxa siamo invitati a resistere, come cittadini.
Nonostante si sia scritto molto a riguardo, in pochi, e senza grossi risultati, hanno approfondito gli elementi di soddisfazione, potenza, orgoglio e appagamento che l’espletamento di queste funzioni riesce a conferire a coloro che le hanno praticate.
Il pharmacòs era il nome del rito e, nel contempo, il nome della vittima – o dell’offerta, a seconda dei punti di vista – di tale sacrificio. Pharmacòs, oltre che vittima espiatoria, significa anche “avvelenatore”, “mago”, “stregone”, “scellerato”, “delinquente”.
È sempre stata una manovra molto diffusa quella di associare il “delinquente” al “dissenziente”, e di presentare le due figure come un mostro a due teste. Denigrare, sminuire, ridicolizzare il dissenziente è un meccanismo così arcaico che probabilmente esiste sin dalla notte dei tempi. Adesso questo lavoro sporco, che si fonda sul principio di etichettamento di cui scrivevo all’inizio, è affidato ai mass media, che lo svolgono di solito con accurata professionalità e senza spargimenti di sangue.1
Perché? Perché in ogni caso, buono o cattivo che sia, il pharmacòs è innanzitutto un rimedio. Un rimedio tramite un rituale di espulsione di ciò che si presume inquini la comunità, porti male, sia foriero di negatività, di malanni e calamità. Il pharmacòs rappresenta la malattia di una società. Tramite la sua espulsione simbolica, si rimedia a tale malattia.
Questa doppia ambivalenza del significato è propria anche del termine φαρμακον, pharmacon, cioè medicina, per come lo intendiamo oggi, che vuol dire sia rimedio e sia veleno.
Cosa rende un farmaco un veleno o un rimedio? Tre elementi: la tossicità dei propri componenti, l’appropriatezza rispetto al male che si vuole curare e il (sovra)dosaggio.
Ci si potrebbe chiedere, ancora per anafora, se certe narrazioni che i mass-media veicolano (guerra, minoranze, economia su tutte) siano oggi un veleno o un rimedio, tenendo fede a questi parametri, e articolare una precisa e severa linea di condotta conseguentemente alla risposta.
1 Ecco, a questo proposito è emblematico il caso dei no vax:, la cui condotta scatena un curioso dispositivo anaforico: loro stessi considerano il farmaco, concretamente, un veleno per l’organismo fisico allo stesso modo di come i mass media considerano i no vax un veleno per l’organismo sociale.