
Il tritacarne degli anniversari e delle commemorazioni ha ormai cannibalizzato qualunque evento, paralizzando le azioni del presente e relegando in uno spaziotempo rigidamente calendarizzato persone, problemi, fatti, di incredibile portata.
Su questo carrozzone sono saliti anche i residui più deteriori dell’opinione pubblica occidentale, gente che ritiene debba esserci una giornata dedicata alle questioni più sciocche, con il risultato che la memoria del genocidio degli ebrei debba imbarazzantemente convivere con la giornata dedicata a qualche cronaca minima a uso di un manipolo di persone.
Per gli apocalittici, questo fenomeno è il kitsch occidentale, la centrifuga europeizzante e globalizzata in cui tutto è indistintamente accolto sotto l’ombrello del puritanesimo protestante a ideologia capitalista (a giochi fatti, Capitale è l’unico Santo che celebriamo ogni giorno). Per gli integrati invece è il necessario modo che una democrazia ha di rappresentare i diritti di tutti.
Tuttavia, si verifica anche un effetto contrario, e cioè che fatti da commemorare non si trovano nella lista di ingresso degli episodi degni di una commemorazione. Non hanno cittadinanza, con l’effetto di obliarli, e anche questo è un male. Che fare? Se commemorare è diabolico (e secondo me, con questa modalità della giornata dedicata, lo è) dimenticare lo è altrettanto.
Questa contraddizione emerge in questi giorni in cui ricorre l’anniversario dei fatti di Genova. Nessuno, se non le persone che si ritengono ideologicamente coinvolte nella cultura che ha generato il Movimento No Global (io sono tra queste) ha interesse a commemorare quei giorni. Certo, non mi aspetterei un comunicato del Presidente della Repubblica, quanto una serie di iniziative di organi non istituzionali che rappresentino larghi segmenti dell’opinione pubblica e che creino dibattito. Perché, per la mia generazione, i fatti di Genova sono il nostro 25 aprile. Un 25 aprile al contrario. Un giorno in cui si sono gettate le basi per il definitivo annichilimento di forme di dissenso utili e sane in una democrazia, seppur scomposte.
I residui di quel Governo lì (composto in parte da faccendieri e criminali democraticamente eletti da elettori che non hanno mai fatto un esame di coscienza sui danni che il loro voto provocò allora) hanno tutto l’interesse a operare una rimozione e a concentrarsi sulle vetrine rotte.
Le generazioni successive a quella di Genova hanno ripreso alcuni temi, soprattutto quello ambientale, senza però interrogarsi sulle speculazioni e le riflessioni precedenti, con l’effetto di adagiarsi su un manierismo artificioso di protesta, privo di una reale consistenza, da pacca sulla spalla.
I mass media, almeno quelli italiani, hanno tutto l’interesse a sminuire realtà realmente democratiche sorte in seno a quel movimento, fermandosi al ratto delle vetrine e al perbenismo di derivazione postborghese (eppure, che non sia un pranzo di gala, è cosa risaputa). Inoltre, è ancora più imbarazzante e tendenzioso il silenzio intorno a realtà di portata estremamente significativa in termini di notiziabilità che sono state soffocate sul nascere. Penso a Indymedia, che è stata uno dei più bei frutti di quella stagione e che costituiva un modello davvero rivoluzionario di fare informazione.
La pletora questuante e moralistica dei politici sedicenti democratici (ma assai fascisti nei modi di trattare l’opinione opposta alla loro) non ha lo spessore intellettuale per analizzare quanto accaduto: è gente che già allora stava a farsi le vasche in centro o mangiare il cornetto in spiaggia mentre a Genova c’era in atto un potente grido di dolore nei confronti di certe forti contraddizioni della nostra società. Gente passata dalla spiaggia al Parlamento, insomma.
Ecco, oggi a me pare che questo oblio dei fatti di Genova sia una congiura degli inetti e dei vigliacchi. Tratto caratteriale, quest’ultimo, che è davvero essenziale quando si parla di genio italico.