
- Andragathia, in Brutiis
- La definitiva igienizzazione del termine “‘ndragheta”
Martino riesce quindi a stabilire che c’è una attestazione del termine “andargathia” in relazione a una precisa area geografica e a un preciso carattere, e che tale termine è relativo a un’area geografica lontana da quella calabrese attuale. Tuttavia, rileggendo il Thesaurus Geographicus di Ortelius, Martino nota che quest’ultimo scrive: “andragathia, in Brutiis, Posidoniatarum regione. Diodorus”. In altre parole, Ortelius nella sua carta geografica colloca l’andragathìa nella Lucania ma nel Thesaurus dice che l’andragathìa è “in Brutiis”. Si apre dunque un altro problema per Martino: che criterio ha usato Ortelius? Leggiamo cosa scrive lo studioso:
“A nostro avviso, l’erudito olandese, nel creare il coronimo Andragathia regio, ha combinato due informazioni eterogenee, sulle quali ora ci soffermeremo: un topos storiografico antico (l’ἀνδραγαθία degli antichi Lucani) e un dato di cronaca contemporanea (la prodezza dei briganti lucani sotto i Viceré spagnoli). (…) I Lucani, nell’antichità, erano noti al mondo greco come combattenti di straordinario valore, e venivano celebrati per i loro costumi simili a quelli degli Spartani e per la loro “ospitalità e giustizia”, ma soprattutto perché considerati propensi ad atti di coraggio che Diodoro, nel luogo sopra citato, chiama espressamente ἀνδραγαθήματα (andragathèmata). E va ricordato che lo storico parla di ἀνδραγαθία anche in altre occasioni, ad esempio esponendo le misure adottate da Caronda, legislatore di Thurii (città greca dell’interno, in ambiente lucano ellenizzato). Nel quadro della cultura umanistica del Rinascimento, rivolta alla scoperta e allo studio dei classici, non era difficile, a un erudito quale fu l’Ortelius, riallacciare questo leggendario valore dei Lucani antichi all’intrepidezza di briganti contemporanei. Nel periodo spagnolo (1504- 1707) il Regno di Napoli fu ricettacolo di bande organizzate la cui fama superò ben presto i confini del Regno, amplificata dagli studi antiquari del tempo. In quell’epoca di sfacelo economico e sociale, scriveva ne1786 G.M. Galanti, “si formarono comitive di masnadieri, detti volgarmente banditi, i quali per più di un secolo si sostennero contro gli sforzi del governo, e misero tutto a sacco e rovina. Ciascuna comitiva aveva il suo capo, e ve ne furono secento”. (…) Considerata la storia linguistica del Cilento e della Calabria, appare più probabile che un termine greco bizantino sia sopravvissuto fino al XVI secolo nelle parlate locali per designare la prodezza dei briganti contemporanei, emuli degli antichi Lucani e Bruzi. (…) Ma se 1’Ortelius colloca l’andragathia anche ”in Brutiis” senza potersi appoggiare sull’autorità di qualche fonte greca o latina antica, è chiaro che pure la Calabria poteva essere accomunata alla Lucania in quella denominazione. Certo, il brigantaggio non fu un fenomeno peculiare al solo Cilento o alla sola Lucania; il resto del Mezzogiorno d’Italia, per esempio i multi ignobiles populi del Bruzio ricordati da Livio (XXX 19, 10) non dovevano godere certamente, presso la storiografia cinquecentesca, di una reputazione diversa da quella dei Lucani”.
Rimane aperta la questione se il termine sia di origine colta oppure popolare. Martino propende per la seconda ipotesi: “Considerata la storia linguistica del Cilento e della Calabria, appare più probabile che un termine greco bizantino sia sopravvissuto fino al XVI secolo nelle parlate locali per designare la prodezza dei briganti contemporanei, emuli degli antichi Lucani e Bruzi”.
A questo punto la partita sembra essere chiusa. Senonché, arriva un intervento dell’Accademia della Crusca nel 20141 a sparigliare le carte così magistralmente ricomposte da Martino (alla lettura del quale saggio rimando il lettore, auspicando che venga divulgato più di quanto non lo sia già, perché è un documento di grande interesse scientifico e per lunghi tratti avvincente) e aprendo un terzo filone intepretativo:
Alberto Nocentini contesta l’ipotesi di Martino, e lo fa sostenendo tre argomenti. Il primo, è che le fonti di Ortelius sono probabilmente “delle reminiscenze classiche” del geografo, e non dei nomi realmente usati all’epoca. Questo perché il Cilento nella carta dell’Ortelius non è mostrato, essendoci solo un’area bianca. Quindi, l’Ortelius ha dovuto inventare un nome per quell’area, ai tempi poco o per niente esplorata, e ha attinto alle sue fonti classiche: Diodoro, Strabone, Plutarco ma senza che vi fosse una reale corrispondenza tra la realtà onomastica di quei luoghi e quanto poi riportato nel Thesaurus e nella Carta. Inoltre, secondo argomento, l’epicentro della ‘ndrangheta è la locride, e quindi Nocentini non si spiega in che modo ciò possa avere a che fare con l’area del Cilento (e qui però dimostra una scarsa conoscenza del fenomeno mafioso in Calabria, accodandosi così a una lunga tradizione fatta di incredibili approssimazioni). Il terzo argomento è che, cito testualmente: “mancando una tradizione lessicografica accurata ed esauriente per i dialetti della Calabria e in particolare della locride, si può ricorrere alla contigua Sicilia e in particolare alle province di Messina e Catania, la cui continuità dialettale colla Calabria è cosa nota”. In questo caso non è chiaro perché Nocentini trascuri la lezione lessicografica del Rohlfs e scarti in maniera così brutale l’ipotesi greca per imbarcarsi verso lo Stretto e sbarcare in Sicilia. Vale la pena riportare per intero l’ipotesi di Nocentini:
“Nel II Volume del Vocabolario siciliano curato da Giovanni Tropea (Catania-Palermo, 1985) la voce ’ndrànghiti “associazione mafiosa” è registrata colle varianti “’ntràgniti” e “’ntrànchiti”, che ricorre nella locuzione “ra ’ntrànchiti “(essere) della malavita”; quest’ultima variante coincide coll’omonimo “’ntrànchiti”, “interiora di capretto o di pecora”, che a sua volta presenta le varianti “’ntragni, ’ntràgnisi, ’ntrànghisi ‘interiora, frattaglie” e discende dal lat. “interanĕa”, “interiora”, come l’antico francese “entraignes”, il catalano “entranyes”, lo spagnolo “entrañas”, il portoghese “entranhas”. La coincidenza delle varianti di ’ndrànghiti “associazione mafiosa” con quelle di ’ntragni “interiora” non può essere fortuita e quindi si prospetta un rapporto di derivazione, che va inevitabilmente dalla ricca famiglia lessicale discendente dal lat. “interanĕa” (resta solo il sospetto che le voci siciliane siano state introdotte dal catalano o dallo spagnolo) verso l’isolato ’ndrànghiti. Sul piano formale le differenze fonetiche fra le varianti “’ndrànghiti” e “’ntrànchiti” si spiegano agevolmente come fenomeni di assimilazione dovuti alla generalizzazione della sonorità consonantica nel primo caso e della sordità nel secondo, mentre la differenza fra “’ndrànghiti” e “’ntràgniti” risponde all’esito alternativo che si ritrova nelle coppie come “unghia” e “ugna”, “cinghia” e “cigna”. La terminazione -ti di “’ntràgniti” (e quindi di “’ndrànghiti”) rispetto a “’ntragni” è un suffisso con valore collettivo, che ricorre in voci dialettali calabresi che si riferiscono a insiemi di oggetti minuti, quali “durciàmati”, “assortimento di dolci”, “salèmiti” “ciccioli”, “sordàmiti”, “piccola somma di denaro”, “spezzàmiti”, “ritagli, rottami”, “spicòmati” “insieme di spighe raccolte”; il suffisso è con tutta probabilità di provenienza greca ed è ricavato dai prestiti declinati secondo il paradigma del neutro “stóma”, plur. “stómata”, dove il morfema -ta è stato identificato con facilità come segno di pluralità e poi normalizzato in -ti conformemente alla desinenza dei plurali di origine latina. Sul piano semantico il significato di “interiora, intestini” ha assunto quello metaforico di “membri uniti da un legame interno, profondo, esclusivo e riservato” e quindi “uomini d’onore”, da cui la locuzione “società dei ’ndranghiti” e per ellissi semplicemente “’ndranghiti”.”
Mi interessa adesso riattraversare lo Stretto e tornare di nuovo in Calabria, e offrire l’ipotesi di risposta alla tesi di Nocentini fornita da John B. Trumper e Marta Maddalon nel già citato Male lingue, vecchi e nuovi codici della mafia: partendo dall’ipotesi di Martino, i due studiosi affermano che i termini dai quali far derivare “andragathia” sono i verbi “andraghatō” e “andragathízomai”, che significano “fare prodezze”, “compiere azioni militari valorose”, e non da “andreía”, che vuol dire “coraggio”, come invece faceva Martino. Del nostro famoso “Andragatíhai” Merton e Maddalon ritrovano alcune attestazioni in un dizionario del 1826 e in altri dizionari pubblicati a cavallo tra l’800 e il ‘900. In sostanza, i due studiosi affermano che il percorso di Martino è a loro avviso corretto, ma gli esiti ai quali approda a livello semantico non del tutto, e per questo aggiustano il tiro insistendo sul concetto di “compiere azioni valorose”. In effetti, leggendo il passo di Diodoro Siculo, il famoso cacciatore era conosciuto per le sue valorose imprese (ἀνδραγαθήμασι διωνομασμένος ), ma non era egli stesso a essere definito valoroso.
Qui si chiude questa ricognizione divulgativa sull’enigma del termine ‘ndrangheta, che è un termine rimasto ragionevolmente ibernato per diversi secoli, come scrivono Trumper e Meddon, probabilmente in uso in forma orale soltanto nell’area aspromontana e poi definitivamente emerso attraverso i primi rapporti giudiziari e definitivamente igienizzato attraverso una significatività univocamente rigida nell’attuale centrifuga massmediatica.
Eppure, è parola antica, e in quanto tale è uno scrigno di conoscenza.