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La questione è controversa

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La questione è controversa e riguarda anche per esempio i nomi di militari e gerarchi fascisti responsabili di crimini di guerra in Africa Orientale, per esempio. Questo per dire che è il tema etico in sé a essere il protagonista di questa mia riflessione, che nel mio caso parte dalla questione locale ma che può essere trasversalmente riadattato a tantissimi altri episodi storici (ed è, tra l’altro, un tema sul quale c’è già una poderosa letteratura).

Ma torniamo a noi, torniamo in Calabria, e andiamo alla questione della mitizzazione degli eroi, e facciamo un esempio pratico di che cosa succede in casi come questi. Nel 1087, a Delianuova (allora divisa in Pedavoli e Paracorio) vi fu un nutrito gruppo di persone che combatté in funzione antifrancese. Si trattava di due fratelli di nome Giuseppe e Giovanni Perrone e di un prete, don Giuseppe Melecrinis, loro zio. I tre facevano parte di una banda di circa trentasei uomini di Pedavoli che si stanziò a Gambarie e a Santa Marina, nei pressi del convento (che già all’epoca non c’era più), dopo un saccheggio nel Paese a opera dei francesi. Ricordiamo che il malcontento antifrancese era molto forte in questa area, a forte vocazione cattolica e realista.

Inoltre, i francesi pretendevano cibo e derrate, e lo facevano nonostante fossero occupanti, venuti da altrove per rivendicare un possesso sul quale non potevano vantare nessun robusto diritto, se non quello di portare un vago ideale. Per esempio, chiedevano al comune di Pedavoli, che aveva 1130 abitanti, 63 cantàia di paglia da letto e 560 per le bestie. A quello di Paracorio, che contava 600 abitanti, 320 da letto e 290 per le bestie. Quello che non si riusciva a produrre, bisognava corrisponderlo in denaro, tre carlini per soldato. Teniamo presente che un cantàio equivaleva a 89 kg, quindi un comune che solo vent’anni prima aveva subito uno dei terremoti più devastanti della storia dell’umanità, in cui la gente viveva ancora in baracche di legno, doveva contribuire con un carico di aiuti palesemente insostenibile: nemmeno i tedeschi durante l’occupazione avevano chiesto tanto ai paesani, limitandosi a qualche animale e a un po’ di cibo e benzina.

A partire dal 1806 si inaugura in Calabria il decennio francese, che certo riuscì a coalizzare parte della popolazione, se pensiamo che persino da Pedavoli si onorarono di arruolarsi con la Grand Armée per la campagna di Russia due deliesi, che tornarono vivi da quella esperienza e che ne raccontarono le gesta fino alla vecchiaia (si chiamavano Giuseppe Vocisano e Pasquale Papasergio, e appartenevano alla Guardia Imperiale sotto il comando del Generale Cambronne. Tra l’altro, raccontarono che molti calabresi in rotta si raggrupparono insieme in modo da potersi aiutare e affrontare insieme quel tremendo nemico).

I francesi rimasero in Calabria fino al 1815, quando con il Congresso di Vienna i Borbone furono riabilitati. Si capisce, meglio, alla luce di quanto accaduto, la sprovvedutezza di Gioacchino Murat che, nell’ottobre del 1815, ad accordi oramai presi e con il cognato fuori dai giochi, si presenta a Pizzo con un pugno di uomini sperando in una insurrezione e finendo invece fucilato.

Ora, nella narrazione locale, i Perrone sono accusati, velatamente, di far parte di quel gruppo di “briganti” che la notte tra il 6 e il 7 maggio del 1807 misero fuoco alle baracche di Paracorio, distruggendo 200 delle 240 abitazioni presenti, sotto gli occhi impotenti dei francesi.

Non sappiamo però quale fu il ruolo dei Perrone in alcune di queste storie, ma l’impressione che ho avuto io studiando le carte disponibili è che i due fratelli siano considerati un po’ i capri espiatori, i pharmakòi della situazione. Intorno a loro si coagulano tutte le colpe di una società che in quegli anni doveva essere assai insicura, impaurita, schiacciata tra l’inquietante potenza innovatrice francese e la pachidermica stabilità buonista cattoborbonica. Ogni mossa era da controllare, ogni parola da pesare, ogni inchino da valutare. I Perrone, che a mio avviso non erano altro che partigiani, in prossimità dell’arrivo dei francesi furono sempre più indicati come dei briganti dediti a ogni nefandezza, con una manovra di maldicenza inversamente proporzionale alla catarsi purificatoria di cui fui investita invece una figura come Giandomenico Romeo. Per inciso, i Perrone sono uno dei tanti esempi, ma di briganti in Aspromonte ce ne erano a centinaia.

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