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Le adunate sediziose del marzo 1950 nella Piana di Gioia Tauro

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Questa voce fa parte 1 di 2 nella serie Contro la retorica dell'immobilismo

Nell’immediato Secondo Dopoguerra in Calabria e in molte altre aree del Paese si è aperta la stagione dell’occupazione delle terre a opera di consistenti gruppi di braccianti politicamente organizzati. Questa stagione ha visto la Calabria protagonista con innumerevoli casi, alcuni dei quali eclatanti (come i fatti di Melissa1), altri meno.

Gli episodi accaduti in quel lungo periodo hanno mobilitato una considerevole massa di persone. Eppure, nonostante vi sia una corposa letteratura sul tema, questi episodi sono quasi del tutto trascurati a livello di senso comune, fino a cedere il passo a una retorica endogena che ama confermare la pigra tesi dell’immobilismo di questa realtà. Tale retorica diventa spesso una versione di comodo che la nostra cultura presenta al Tribunale della storia, in modo tale da garantirsi una presunta assoluzione e una concessione di un indulto per così dire, cioè della legittimazione a poter continuare a rendere il futuro una necessità predeterminata. Tanto, come diceva Tomasi di Lampedusa, ecc. ecc. Questa accomodante rassegnazione non proviene dall’esterno, ma è endogena, dicevo: in altre parole, ci piace raccontarcela così, per una forma di quieta, rassicurante, deresponsabilizzazione.

In questo articolo, cercherò di raccontarla in un altro modo, altrettanto o forse più veritiero di quello imperante. Operazione necessaria, poiché focolai insurrezionali qui ce ne sono stati. E tali insurrezioni avevano una profonda ragion d’essere che andava al di là delle rivendicazioni politiche e si articolava in una vera e propria sfida contro una mentalità anchilosante e improduttiva.

In particolare, nelle giornate tra il 6 e l’11 marzo del 1950, ci sono stati almeno una decina di focolai insurrezionali scoppiati come un virus in otto centri della Piana, che hanno convolto nel complesso circa un migliaio di persone. In alcuni casi, addirittura nello stesso giorno furono occupati più poderi nello stesso comune, come per esempio a Palmi. Ciascuna occupazione era costituita da centinaia di persone.

Le forze dell’ordine, chiaramente impreparate di fronte a queste masse così determinate, si limitarono a gestire le diverse situazioni che via via si crearono senza incoraggiare il malcontento. La Legge infine, riconobbe in parte la giustizia di tali azioni e accantonò forme di demonizzazione legale. Fu una scelta saggia: Melissa gridava ancora vendetta e considerare questi atti come meramente criminali, e non come politici, significava mettere benzina sul fuoco della rivolta, alimentare il malcontento e quindi la sedizione, allattare futuri rivoluzionari. La cautela, tutta cattolica, fu un ottimo anestetico, ma “marzo ha le sue carte”, come dice il proverbio.

Il 6 infatti, 180 varapodiesi si svegliarono, si diedero appuntamento in piazza e andarono di buon passo a occupare l’uliveto “Furone” appartenente all’avvocato Francesco Muscari Tomaioli.2  Giunti lì si divisero in squadre e iniziarono a dedicarsi a opere di zappatura, essendo il terreno in larga pare incolto. Alle 16.30 finirono il lavoro. Alcuni rimasero a presidiare, altri tornarono a casa. La mattina dopo, alle 11, i carabinieri si presentarono sul posto a chiedere ragione dell’accaduto. Alfonso Impelliccieri e Francesco Zumbè, i due organizzatori dell’azione, risposero che il terreno era incolto e che dissodarlo non era un reato. I carabinieri risposero che invece lo era, perché era un’occupazione abusiva, e arrestarono una ventina di persone. Nel dibattimento il giudice riconobbe che in effetti l’occupazione non era finalizzata a una appropriazione delle terre, ma a un fine lodevolissimo, cioè il dissodamento nel terreno. Però non era men vero che da tale operazione i braccianti avrebbero potuto ricavare un vantaggio personale, anche se non economico. E per il solo fatto di poter ricavare un vantaggio personale, il giudice vide configurarsi quindi una fattispecie di reato che ascrisse solo ai due organizzatori, che perciò condannò a una pena di 45 giorni di carcere ciascuno e a pagare una multa.

Attenzione: la questione del profitto non è secondaria. Una aggravante del reato infatti era quella di occupazione abusiva di proprietà al fine di ricavare un profitto personale. Era lì che si giocava la partita giuridica, ed è per questo che, astutamente, Zumbè e Impelliccieri sostennero che stavano dissodando quelle terre per aumentare il profitto del proprietario, e non per un proprio profitto.

Sempre il 7 marzo del ’50, un altro gruppo di varapodiesi coordinati da Domenico Papalia occupò il podere “Giardinello” del Marchese Marino Rodinò.3 Un bracciante presente in un fondo vicino si trovava intento ad arare il terreno con due buoi e appena vide i braccianti arrivare scappò a gambe levate. Anche in quel caso, la sentenza fu mite, sempre sul quel delicato punto di equilibro presente tra la difesa della legge e la necessità di non incoraggiare il malcontento.

Spostiamoci adesso a Seminara4. Già nel 1948 vi fu una consistente operazione di occupazione delle terre e il 7 marzo, stesso giorno della duplice occupazione a Varapodio, 141 persone (l’elenco con i nomi è lungo sette pagine, Tomasi di Lampedusa sarebbe sobbalzato sulla poltrona a leggerlo) occuparono i fondi di Orazio Rossi e di Leo Gerace. Stessa dinamica di Varapodio: gli occupanti si armarono di zappa e iniziarono a dissodare il terreno. I carabinieri, che quel giorno plausibilmente si avvisarono di stazione in stazione, si accorsero che stava succedendo qualcosa di strano, si precipitarono nei fondi e cercarono di capire se quella fosse una manovra collettiva e organizzata oppure fosse un atto di protesta momentaneo. Inoltre i militari erano in pochi, e le persone armate di zappa non avrebbero certo considerato un atto di gentilezza vedere i carabinieri sfoderare troppe pistole e manette e avrebbero pertanto, probabilmente, reagito con decisione. Anche in quel caso, la reazione della Legge sembrò più che altro orientata a salvare la faccia anziché a punire il presunto reato.

Lo stesso giorno nella stessa area, a Palmi, 140 persone invasero i fondi di Francesco Cosentino, mentre altre 40 occuparono il fondo di Alfonso Medici.5 Accorsero tre carabinieri e un maresciallo e si trovarono davanti a una moltitudine di braccianti intenti a zappare  la terra. I carabinieri avvisarono il capo della rivolta, Santo Loiacono, di mettere fine alla protesta, ma lui per tutta risposta incitò i contadini dicendo loro di continuare a zappare, perché solo così avrebbero potuto avere la terra che spettava loro. I carabinieri, vista l’inferiorità numerica, pensarono bene fosse il caso di andare a vedere cosa diavolo stesse succedendo nell’altro fondo. Anche qui chiesero agli organizzatori di mettere fine alla protesta, ricevendo un netto rifiuto. E anche in questo caso i carabinieri, vista l’inferiorità numerica, pensarono bene fosse il caso di girare i tacchi e tornarsene in caserma.

Gli atti riportano poi che Loiacono, poco prima che la giornata di lavoro terminasse, prese una macchina e andò a Rizziconi, dove si procurò una quarantina di stampati dal titolo “Compagni contadini della Provincia di Reggio Calabria” e iniziò a radunare gente nella pubblica piazza. Poi andò a Palmi, radunò di nuovo una folla in piazza Primo maggio (folla costituita dai contadini che quel giorno avevano occupato le terre) e li incitò a fare la stessa cosa l’indomani e a non avere paura degli sgherri di Scelba. Dopo il comizio di piazza Primo maggio, Loiacono diventò per qualche giorno una primula rossa. Si scatenò una curiosa caccia al ladro che durò qualche giorno: il 10 infatti i carabinieri sgomberarono la proprietà di Cosentino ma non riuscirono a trovare Loiacono, che nel frattempo organizzò dei comizi (oggi si direbbe del flash mob) improvvisati. In uno di questi, l’11 marzo, al Trodio, venne beccato dai carabinieri e arrestato. Le accuse furono molteplici: istigazione a delinquere, invasione di terreni, manifestazione pubblica non autorizzata e distribuzione abusiva di stampati. Venne anche trovato in possesso di una lettera a firma illegibile. Dalle poche informazioni che riportano i documenti, vi erano delle istruzioni rivolte a Loiacono su come organizzare la rivolta e su come estenderla al più vasto numero di braccianti. Purtroppo la firma dell’autore, scrivono i carabinieri, è illegibile. Alla fine, Loiacono verrà condannato a 15 mesi di reclusione e a 23.000 lire di multa.

Lo stesso giorno, circa 70 palmesi coordinati da Rosario Carrozza furono arrestati perché occuparono un altro fondo presente a Seminara e appartenente a Giuseppe De Leo. Qui però la risposta della Legge fu ancora più morbida: il giudice disse che in effetti non era facile stabilire se quel giorno vi fu una manifestazione simbolica oppure un reale tentativo di appropriazione delle terre, per cui non essendoci prove sufficienti capaci di dimostrare l’intento criminale dell’azione, assolveva tutti gli imputati, compreso Carrozza, per insufficienza di prove.

L’occupazione avvenuta nelle stesse ore a Polistena ci fornisce ulteriori elementi di chiarificazione.6 Nelle carte processuali infatti si asserisce che tali occupazioni furono volute in sinergia con le medesime avvenute in provincia di Cosenza e Catanzaro e su impulso della Federazione comunista di Reggio, che inviò diversi suoi emissari in quelle settimane. Uno di questi era Giuseppe Fragomeni, che la mattina dell’8 marzo del 1950 si diede appuntamento davanti alla Camera del Lavoro di Polistena con il segretario Francesco Condello, con Mario Tornatora e con altre 150 persone. Leggiamo le parole del verbale:

Innalzati dei cartelloni e la bandiera rossa, marciando in corteo, si erano diretti verso la contrada Vittoria ed erano pentrati in un fondo del duca Riario Sforza dove, issata la bandiera rossa su di un albero di ulivo e piantati nella terra i cartelloni, si erano irradiati per circa trenta tomolate di detto fondo.

I carabinieri sgomberarono l’area ma il giorno dopo i contadini si ripresentarono, senza però né Fragomeni e né Condello: il primo se ne era già tornato a Reggio, il secondo era irreperibile ma si rifece vivo nei giorni seguenti. Venne organizzata una riunione al Comune in presenza del sindaco, di alcuni proprietari terrieri e dei rappresentanti dei braccianti, e questi ultimi avanzarono delle richieste molto precise: chiesero al sindaco di aggiornare la lista dei disoccupati e chiesero ai proprietari terrieri di assorbire la manodopera presente in quella lista. Questi ultimi si dichiararono d’accordo. In seguito però Condello iniziò ad accampare scuse: diceva  di non voler consegnare la lista dei braccianti se non prima ci si fosse messi d’accordo sul salario. Poi arringò un altro centinaio di contadini e tornò al fondo di Riario Sforza.

A livello giuridico diventò prioritario un altro problema, di cui il giudice si fece portatore: è giusto far valere un proprio diritto (il diritto al lavoro) attraverso una sopraffazione di un altro diritto (quello alla proprietà)?

Anche in questo caso, le pene furono blande, qualche multa e qualche settimana di reclusione. Tornatora se la cavò dicendo che quel giorno si trovava lì non già in qualità di sobillatore, ma in qualità di corrispondente da Polistena per “l’Unità”. Un altroTornatora, Alberto, disse che lui invece era corrispondente da Polistena per il giornale “Paese”.

Insomma, evidentemente Polistena in quei giorni aveva la copertura mediatica di New York.

 

 

In copertina: Renato Guttuso, L’occupazione delle terre incolte in Sicilia, 1949.

1 Il 29 ottobre del 1949 a Melissa, in provincia di Crotone, i reparti della celere, che raramente nel corso della loro storia hanno dato prova di intelligenza e sensibilità tattica, aprirono il fuoco contro i braccianti che stavano occupando il fondo Fragalà, appartenente al barone Berlingeri. Si trattava di un fondo che in origine era diviso tra il comune e la famiglia del barone ma che negli anni fu occupato per intero e abusivamente dai Berlingeri, e questo rendeva più accese le rivendicazioni dei braccianti. Durante quell’occupazione furono uccise tre persone: Francesco Nigro di 29 anni, Giovanni Zito di 15 anni, e Angelina Mauro di 23 anni. I fatti destarono grande scalpore all’epoca.

2 Archivio di Stato di Palmi, Sentenze del Tribunale di Palmi, Busta 34, a. 1950, sentenze 464/761. Colgo l’occasione per ringraziare il personale dell’Archivio di Stato di Palmi per la professionalità e la disponibilità.

3 Archivio di Stato di Palmi, Sentenze del Tribunale di Palmi, Busta 35, a. 1951, sentenze 1/469.

4 Archivio di Stato di Palmi, Sentenze del Tribunale di Palmi, Busta 36, a. 1951, sentenze 472/855.

5 Archivio di Stato di Palmi, Sentenze del Tribunale di Palmi, Busta 35, a. 1951, sentenze 1/469.

6 Archivio di Stato di Palmi, Sentenze del Tribunale di Palmi, Busta 36, a. 1951, sentenze 472/855. Fascicolo n. 282/50.

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