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Storia di una filastrocca

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Questi giorni evocano un tempo inquietamente fiabesco che non appartiene tanto a una noiosa dimensione personale, quanto a una dimensione letteralmente memorialistica, di una comunità che non c’è più. Tale sensazione si è fatta più forte l’altro giorno, mentre il ritmo in 6/8 degli organetti per strada invitava il corpo a un walzer immaginario. Anziché il ballo però, mi ha attratto l’armonia pulita di una filastrocca che ogni tanto sentivo da bambino, e che in qualche modo quella musica mi ha riportato alla mente:

Mi faciti lu maiu maiu/Ca se no non mindi vaju/E si vui non ndi lu fati/Vi rumpimu li vitriati.

Mi colpiva, adesso che ci ripenso con adulta consapevolezza, il finale puerile e violento, l’anticipazione di un atto di teppismo, quasi irreversibile. La distruzione di un manufatto artigiano, la violazione di un ambiente privato e forse, implicitamente, l’ipotesi di una casa bella ed elegante alla quale questi ragazzini bussavano nell’era del preHalloween, a testimoniare l’ennesima batosta del rimosso e l’idiozia puerile del nuovo, del posticcio, del plastificato.

La promessa di questa meraviglia, contenuta nell’ultimo rigo della filastrocca, mi ha sempre imposto delle evocazioni immaginifiche, allora come oggi: le vetrate sono tipiche di una chiesa o di un luogo di culto, non solo di un’abitazione privata. Sembrerebbero anticipare rosoni sacri dipinti a mano con cromatismi raffinatissimi, frutto di miscele rare. Il termine poi, nel nostro dialetto, è inconsueto, anomalo. Non è una rima scontata. Mi sembra un termine che è lì apposta, un’esca che potrebbe aprire uno squarcio su una realtà antica, oscurata. E poi la prima frase che, insieme all’ultima, contiene un’altra espressione-esca, mi faciti lu maiu maiu. Tutte le filastrocche necessitano di essere concise per poter decidere del proprio significato. Non possono essere pleonastiche, non possono fare spreco di parole. E questa filastrocca è significativa e lapidaria: “se non mi dai la caramella, ti ditruggo le vetrate”.

Come tutti i testi fiabeschi, le filastrocche sono esche in grado di attirare il lettore verso una realtà che il tempo ha obliato. Il testo seguente è un tentativo di fare luce su questa realtà, un andar con la lanterna lungo le pieghe del senso di questi versi, a batter piste e a seguire tracce, come un cammino in un bosco innevato, la notte di Natale.

Maiu sta per maggio, fare il maiu-maiu, cioè letteralmente il “maggio-maggio”, equivaleva a fare un regalo, una piccola festa, un piccolo dono. Il maiu-maiu è la caramella, il dolce zuccheroso, il proibito dei bambini. Ma è anche il nome della ginestra che si dava in pegno alle spose la notte prima del matrimonio. Per chiarire meglio questa abitudine bisogna andare indietro nel tempo.

La nostra storia inizia infatti nel 715 d. C. in Bitinia, dove nacque una ragazza di nome Marina. La Bitinia si trovava in un luogo che i greci avevano deciso di chiamare ἀνατολή, cioè posto dove sorge il sole, perché era a oriente rispetto a loro. I greci diffusero poi questo nome in giro per tutto il mondo allora conosciuto e così l’area, ancora oggi, si chiama Anatolia.

Marina era figlia di Eugenio, un uomo molto devoto che dopo la morte della moglie decise di trasferirsi in un monastero nel lontano Libano. Allora però le donne non potevano entrare in quei luoghi sacri, ed Eugenio fu costretto ad abbandonare la giovane Marina. Ma il rimpianto per aver lasciato la figlia era troppo grande e l’uomo non trovava pace, finché un giorno non escogitò un ardito stratagemma: consigliò alla figlia di radersi i capelli e di travestirsi da ragazzo, in modo da potere essere accolta tra i monaci. La ragazza accettò, perché capì che era l’unico modo per poter stare insieme al padre. L’idea per fortuna funzionò, poiché in quel monastero i monaci comunicavano poco tra di loro e sempre con il capo coperto da un grande cappuccio. Nessuno si accorse di nulla e per un periodo Eugenio e Marino condussero una vita tranquilla e pacifica.

Un giorno di molti anni dopo, il Superiore ordinò a Marino di andare in un paese vicino per procurarsi delle provviste. Erano trascorsi tanti anni dal loro arrivo e nel frattempo il vecchio Eugenio non c’era più. Marino era diventato molto devoto ai monaci e loro si fidavano di lui. Il ragazzo obbedì, ma a causa di un imprevisto fu costretto a fermarsi per una notte presso la locanda di un uomo di nome Paphnotius. L’uomo era soprannominato così perché aveva delle grandi ed enormi orecchie che gli consentivano di sentire tutto; talvolta però, anche le sue grandi orecchie si ingannavano: la notte in cui Marino dormì nella locanda infatti, Paphnotius pensò di aver sentito delle voci provenire dalla stanza della figlia. In un primo momento sospettò che il giovane monaco fosse caduto in tentazione e avesse cercato di importunare la figlia, pertanto si alzò per controllare ma vide che tutti stavano dormendo. Così se ne tornò a letto, pensando che forse, il suo, era stato solo un sogno.

Qualche tempo dopo, Paphnotius ricevette una confessione dalla figlia, che gli disse che aspettava un bambino e che il concepimento era avvenuto proprio la notte in cui il giovane Marino si era fermato nella locanda. In realtà la donna rimase incinta dopo aver conosciuto un soldato, ma con l’amante decisero di dare la colpa al giovane. Il padre della ragazza andò su tutte le furie: aveva sospettato che qualcosa quella notte fosse successo, e pieno di rabbia e di rancore si precipitò al monastero per ottenere giustizia da quell’oltraggio.

Il Superiore convocò Marino e lo rimproverò davanti a tutti: il ragazzo però non disse nulla a sua discolpa. Il Superiore allora gli ordinò subito di andare via dal monastero. Non importava che fosse inverno e facesse freddo, né importava che il giovane avrebbe patito la fame: l’importante era riparare a quanto accaduto. Ma Paphnotius aveva ancora sete di giustizia, perciò impose al Superiore di prendersi cura della piccola creatura appena nata, perché era frutto del peccato. L’uomo acconsentì e in seguito, una volta che Paphnotius e la figlia si allontanarono, ordinò a Marino di occuparsi lui del bambino, poiché era stato un frutto del suo, di peccato.

Da allora il ragazzo, sopravvivendo con le elemosine di qualche monaco e grazie al buon cuore dei paesani, riuscì ad allevare il piccolo, che chiamò Fortunato, amandolo proprio come se fosse suo figlio. La sua perseveranza e la sua umiltà furono tali che, trascorsi quattro anni, il Superiore decise di riammettere Marino e il piccolo nel monastero, a patto che facessero da servi ai monaci. Seguirono anni di umiliazioni e insulti quotidiani nei confronti del giovane, che però mai si ribellò alle ingiurie subite. Marino infatti decise di non svelare mai la sua vera identità. Finché un giorno del 750, a poco più di trent’anni, a causa della grande fatica a cui fu sottoposto nel tempo, anche per lui giunse la morte. Solo allora, nel preparare il suo corpo per la sepoltura, i monaci si resero conto della verità e, sconvolti dalla scoperta, si inginocchiarono battendosi il petto e invocando la santità di quella umilissima donna.

Da allora il culto di Marina si diffuse nelle chiese copte, ortodosse, cattoliche, persino a Venezia e anche in questa nostra parte di pianeta che si chiama Aspromonte.

Sorsero infatti chiese e monasteri in posti anche molto vicini tra di loro, e ciascuno si contendeva un qualche legame diretto con la Santa: una reliquia, un atto scritto, una leggenda da tramandare di generazione in generazione. A nulla importava che i fatti fossero accaduti lontano, dove sorge il sole, e non qui. L’importante era rivendicare un legame, perché attraverso di ciò si potevano ottenere benefici. Non era per questo che, secondo molti, prima o poi bisognava andare in quei posti e prendersi quel po’ o quel tanto che si trovava?

Anche a Delianuova nacque dunque un monastero dedicato a Santa Marina. Secondo alcuni, era già presente due secoli dopo la morte di Marina. Secondo i più campanilisti la storia si svolse addirittura proprio qua, e non in Bitinia, ed è pur vero che una zona che si chiama ‘A ‘mara monaca figura tutt’ora nella toponomastica locale deliese (il toponimo vuol dire, letteralmente, “la amara monaca”. Amàra ha lo stesso stesso senso che in Sicilia si dà al termine meschino, e si usa per indicare qualcuno che è morto. Potrebbe essere tradotto con sventurata, sfortunata, poveretta). Mia nonna mi raccontava che in quella zona viveva Marina dopo che era stata cacciata dal monastero e che lì fu trovato il suo cadavere, e per questo quel posto si chiamava così.

Tornando al monastero, l’edificio principale, destinato al culto, aveva una forma quasi quadrata, di circa 10 metri per lato, con una cupola affescata con fiori azzurri, rosso e ocra. Si trovava a circa 850 m di altitudine, in un posto dal quale si riusciva a vedere il mare fino al Vulcano. C’era vita tutto intorno a quell’edificio: botteghe di artigiani, una vetreria, fabbri, orti, oltre all’area destinata alle attività dei monaci. Due volte l’anno, il lunedì dell’Angelo e il 17 luglio, i paesani vi si recavano a festeggiare la Santa, e lo facevano anche dopo che l’edificio fu parzialmente distrutto, fino al definitivo crollo probabilmente avvenuto con il grande Flagello del 1783, che ha lasciato adesso niente altro che qualche rudere interrato. Da ragazzino però mi ricordo di quella cupola che emergeva da terra, e mi ricordo di quelle decorazioni, lineari, ordinate, ortodosse.

I monaci sono protagonisti di diverse altre leggende, di alcune delle quali renderemo conto in un altro articolo perché confluiscono in un altro filone di storie, così come renderemo conto della questione strettamente archeologica relativa a questo sito, e degli scavi fatti dal 1999 al 2001. Per ora, mi limiterò a citare Corrado Alvaro, che ci racconta un fatto che è esemplare dal punto di vista massmediatico, perché è un esempio di come si persuade una massa a compiere azioni a proprio vantaggio.

Una volta l’anno infatti i monaci si trasferivano da Santa Marina fino a Monte Pistarchìo, l’odierno monte Fistocchìo, situato sempre in Aspromonte. Successe però che in prossimità dell’anno Mille, in un’epoca in cui le teorie apocalittiche (o protocomplottiste se vogliamo, e la cosa potrebbe servire da spunto di riflessione) erano virali e potenti, era invalsa l’opinione che la Sibilla potesse ultimare il suo proposito di distruggere definitivamente il mondo. E lo avrebbe fatto a modo suo, cioè tagliando le singole colonne che reggevano la Terra. La Divinità era una presenza molto forte nella cultura locale (così come in tutto l’Appennino centro-meridionale), intrisa com’era di un inconscio collettivo fatto di cataclismi e calamità naturali spaventose (non è un caso che uno dei modi in cui la Sibilla si manifestava erano i movimenti tellurici), e nel contempo i monaci erano troppo attenti a tali tradizioni per non trarne vantaggio, considerando che occorreva un nuovo edificio di culto in un posto più sicuro dal punto di vista orografico. Per cui, in prossimità della fine del millennio, diedero fiato alla voce che presto sarebbe realmente arrivata la fine del mondo. Si diressero dunque verso la valle di Polsi e lì, insieme agli ultimi della terra, mendicanti, briganti e rifiutati, con i contributi economici e materiali della gente, edificarono il convento di Polsi, proprio davanti all’antro nel quale si credeva abitasse la diabolica maga, in modo da sorvegliarla (sutta ‘a nucara dormi ‘a magàra, era un altro detto). Questo intersecarsi tra due segmenti folklorici (Polsi e Santa Marina) aprirebbe una ulteriore pista di indagine, visto che Polsi è una delle realtà più studiate in Italia a livello di tradizioni popolari e più scandagliate a livello di letteratura locale, ed è pertanto disponibile una letteratura sterminata sul tema. Per ora, ho volontariamente deciso di dare risalto a questa parete del prisma, ben consapevole che si tratta di un mito fondativo molto, molto più articolato.

Ma torniamo ai nostri monaci: in paese (nei paesi: Delianuova all’epoca non esisteva, ma esistevano due borghi di nome Pedavoli e Paracorìo) erano famosi perché si presentavano due volte l’anno, a maggio e a novembre, per dare e per per chiedere cibo. Nel primo caso, regalavano alla popolazione quello che era rimasto dall’inverno, prima di salirsene al monte citato poco fa. Nel secondo, nel giorno dei morti, venivano a chiedere provviste per poter affrontare l’inverno, una volta ristabilitisi a Santa Marina.

La tradizione del maiu-maiu probabilmente nasce in relazione ai doni che i monaci elargivano a primavera alla popolazione: frutta secca e conserve invernali soprattutto. Doveva essere un momento molto importante per la comunità locale, poiché attirava molte persone che potevano avere cibo gratis, già preparato e pronto al consumo. Il fatto che tale abitudine si sia consolidata in una filastrocca e in una pratica concreta (i bambini che il primo di maggio andavano nella case a chiedere u maiu-maiu) rende plausibile pensare che durò per molti secoli, almeno fino al 1772, anno in cui, secondo alcune testimonianze scritte, il monastero era ancora presente. Questo spiegherebbe perché a Delianuova l’espressione fari u maiu-maiu è legata a una richiesta di un dono.

La cosa interessante però riguarda le visite dei sàmbari (questo era il nome con cui nel dialetto locale si chiamavano i monaci provenienti dal monastero) il giorno dei morti, quando scendevano in paese per chiedere alla popolazione cibo per affrontare l’inverno. Si presentavano incappucciati e con un campanaccio per attirare l’attenzione. L’andatura doveva essere ondulante, il passo stanco, la statura alta. I volti erano certamente barbuti, ispidi, emaciati. Erano austeri, umili, sporchi. Bisogna tornare con la mente al corpo dogmatico e messianico dell’eremita, forse forestiero, forse depositario di una lingua sconosciuta o forse no, con un passato forse irriferibile o forse illuminato da una potente vocazione. Questi uomini inquieti e terribili, sobri e coraggiosi, queste ombre incerte, facevano paura. Arrivavano in giornate fredde, cortissime. Chiedevano cibo senza proferire parola. La loro non sembrava una richiesta, ma una implicita, seppur umile, minaccia. Ed erano vestiti di sacchi con fibre simili alla iuta: anche in questo caso, l’iconografia religiosa ci mostra quasi sempre Santi e monaci con un abbigliamento umile ma pulito e privo di rammendi. Ma basta vedere il saio di San Francesco per capire in che modo un frate si vestiva davvero, a maggior ragione se avesse fatto voto di povertà e di eremitaggio e se fosse stato un monaco ortodosso. abituato alle laure e alle spelonche: sacchi di fibra sporchi e malamente rammendati, con cappucci rattopati sulla spalla, spesso con cuciture ridicolmente diverse le une dalle altre. Tanto è vero che l’espressione vidi ca venunu i sàmbari era ed è tutt’ora usata per spaventare i bambini quando fanno i monelli, un po’ come quando si minaccia la presenza del lupo cattivo o dell’uomo nero. Allo stesso modo di come si usa dire restai comu a nu sàmbaru come equivalente dialettale di restare come un allocco.

Il nome sàmbaru ha molteplici origini etimologiche, tutte molto affascinanti. Le due più importanti fanno derivare il termine da zambaru/zammaru/tàmmaru, che a sua volta deriva da tammâr, che in arabo vuol dire mercante di datteri, e che è il nostro attuale e comune tamarro. I monaci dunque erano chiamati così per il loro aspetto sporco e per la loro sciatteria. Un’altra origine è legata alla fibra vegetale usata per fare i sacchi di zàmmara per trasportare cibo. La zàmmara era una fibra ricavata dall’agave, ed è plausibile che i più poveri usassero questi sacchi anche per coprirsi dal freddo. Ma per questa radice bisogna aspettare la scoperta dell’America poiché la pianta venne importata dal nuovo mondo, mentre i monaci si sono insediati nei pressi dell’odierna Delianuova già intorno al X/XI secolo d. C. (un’attribuzione fa risalire l’esistenza del monastero già al 1050 d. C.). Vero è che probabilmente, come anticipato sopra, forse usavano sacchi di una fibra simile all’agave che esisteva già in quest’area. Un’altra origine è legata non tanto al vestire dei monaci, ma alla loro andatura. Nel nostro dialetto infatti, sonnecchiare si dice zambariàri/zambatiàri, e tale termine richiama al consueto, scoordinato dinoccolarsi del corpo quando il primo sonno se ne impadronisce. I monaci avevano andature stanche, incerte, quasi da sonnambuli (o zombie, senza per questo farci prendere da fantasie etimologiche). Questa origine spiegherebbe l’espressione, riferita prima, restai comu a nu sàmbaru nel senso di rimanere intontito.

Poteva pure darsi che fossero i bambini stessi a rendere la pariglia ai monaci presentandosi loro stessi al monastero, per chiedere cibo o per fare delle bravate o per una effettiva necessità. Vicino al monastero, come scritto all’inizio, sono state ritrovate tracce di lavorazione di vetro e ceramica che fanno pensare all’esistenza di una vetreria, che doveva sicuramente essere molto importante anche per la comunità, vista l’esigenza di crearla e mantenerla in attività. Quell’ultimo verso della filastrocca: vi rumpimu li vitriati/vi rompiamo le vetrate, nasconde dunque delle indicazioni topografiche e narrative molto interessanti. Perché ripeto: l’economia di una filastrocca richiede un forte dosaggio dei termini, più della prosa.

Tale verso potrebbe anche essere indice di una comunità in cui queste vetrate erano molto diffuse ed erano un bene di pregio molto delicato, quasi uno status sociale, se spingeva i ragazzini a minacciarne addirittura la distruzione qualora non avessero ricevuto i doni richiesti.

All’abitudine del maiu-maiu, i primi di maggio, si aggiungeva poi l’abitudine di vestirsi come i sàmbari e andare in giro per il paese, la notte del 31 dicembre. Quest’ultimo rito prendeva spunto dalla seconda discesa dei monaci in paese, che era quella in cui venivano a chiedere cibo, il primo novembre.

Immaginiamo questi ragazzini vestiti con grandi giacche consunte, larghe, sporche. Vanno in giro per il paese, nello scuro illuminato dai lampioni. Ripetono un rito uguale e identico nei secoli, se non fosse per qualche fiaccola al posto dell’illuminazione a olio lampante, o elettrica, e per le giacche consunte che sostituiscono i sacchi di fibra. La loro andatura è uguale a quella di chi, durante la notte, ha dovuto interrompere un sonno profondo perché doveva andare in bagno. Sono sonnambuli, inquietanti, intontiti: zàmbatìano, come sàmbari. Non hanno il campanaccio che avevano i monaci, e osano di più: a Carnevale l’usanza dei nostri paesi era di vestirsi così, con stracci vecchi e maschere orrorifiche, e andare in corteo intonando versi mostruosi e scimmieschi,  bussando di tanto in tanto nelle case per chiedere dolci – cibo, in sostanza. Un debito a quella cultura, tutta bizantina e religiosa, oppure un debito alla cultura contadina, che si basava sul riciclo dei vestiti vecchi e non certo sul diletto di procurarsi stoffe nuove solo per travestirsi da qualcun altro? Non lo so. Ma questi ragazzini che girano in corteo per il paese, queste filastrocche, questi suoni, mi evocano un mondo che, evidentemente, non è solo immaginario. Al contrario di quanto possa sembrare infatti, c’è più storia che fiaba in questi quattro versi.

Infantili, come è giusto che sia, ma esemplificativi dei diversi modi che ha il passato di parlarci, in continuazione.

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