
Ernesta Mieli. Un nome che nulla mi diceva e nulla poteva dirmi semplicemente perché non lo conoscevo. Non nascondo il mio particolare imbarazzo quando il più intellettuale degli amici e compagno di Liceo, Nino Princi mi telefonò per chiedermene conto. In effetti, capita sovente che mi trovi impreparato innanzi alle sue articolate e meticolose ricerche sulle storie, i personaggi, gli autori, miti, leggende del territorio che riesce a cogliere e a tirare fuori da quell’oblio in cui i più le hanno relegate. E così, a caldo, sbadatamente e senza andare a stanare reminiscenze che comunque poi avrei compreso non avere, accostai l’Ernesta Mieli sulla quale domandava lumi ad uno di quegli esclusivi libri o racconti che a Nino, probabilmente per sua deformazione professionale di scrittore, piace tanto rispolverare e restituire alla pubblica conoscenza. Senza immaginare che di lì a poco le mie oziose considerazioni si sarebbero trasformate in compulsivo stupore. Che divenne meraviglia quando vidi mia madre – dalla quale mi trovavo per il rito del caffè – annuire ai ragguagli che il buon Nino in quel momento mi stava fornendo telefonicamente, nel corso di una briosa conversazione, avendone percepito l’argomento. Anche lei aveva sentito parlare di Ernesta Mieli seppur non ricordava per bocca di chi. Che nulla avesse a che fare con il Guerrin Meschino, il Ciclo carolingio e le storie d’Aspramonte di Andrea da Barberino mi era ormai ben chiaro. Dunque, chi era costei e per quale motivo aveva stuzzicato la curiosità di Nino? Il mistero divenne ancora più intrigante quando realizzai che la donna era un’ebrea sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz – unica della sua famiglia – che, ad un certo punto della vita – forse non sapremo mai per quale motivo – da Roma decise di trasferirsi nientedimeno che a Gioia Tauro, città in cui risiedette – avremmo poi appurato grazie al sindaco Aldo Alessio – dal 1983 al 1997, anno della sua morte. Un’ebrea scampata all’orrore del genocidio nazista, viva testimonianza – probabilmente tra le ultime – di quel terribile periodo storico, che per quasi 15 anni aveva abitato la quotidianità di un piccolo centro di 19mila anime, camminando per strada, facendo la fila alla posta, recandosi dal medico o al supermercato, e nessuno ne sapeva niente? Impossibile. E, allora, foss’anche solo per il mestiere che svolgo – il giornalista che consuma le suole delle scarpe – com’è che non mi era mai capitato di sentirne parlare? C’era, però, molto di più. Ed era, in realtà, la circostanza che aveva mosso l’interesse di Nino. Ernesta, dopo aver lasciato questa valle di lacrime, anziché esser seppellita nel luogo in cui aveva trascorso i suoi ultimi anni, fu tumulata per volontà di qualcuno nel cimitero di Delianuova. Finché – riporta la collega Marinella Gioffrè sulla Gazzetta del Sud – poco tempo addietro, una signora si accorse della sua tomba, fregiata della Stella di Davide, e decise di segnalarla alla comunità ebraica di Roma che di lì a poco avrebbe traslato la salma nella Capitale. Avevamo dunque una signora ebrea italiana, originaria di Roma, deportata ad Auschwitz passando per Verona e Fossoli, frazione di Carpi (MO), liberata in Cecoslovacchia, trasferitasi a Gioia e sepolta a Delianuova. Bisognava assolutamente indagare. Perciò, nel mentre Nino proseguiva meticolosamente nelle sue articolate ricerche storiche incrociando precise fonti documentali, io decisi di fare semplicemente ciò che di solito mi viene meglio: attivare la mia rete di contatti e chiedere in giro quante più informazioni possibili. Spinto da una ragione principale che ben s’incrociava con le sue esigenze letterarie: Gioia Tauro, antica Metauros della Magna Grecia, ha perso nel corso delle ultime generazioni la propria memoria storica e recuperarla, anche solo a sprazzi, potrebbe tracciare la strada per una vera rinascita socio-culturale. Per strada, tra i quartieri storici del centro – Stazione, Rimembranze, Monacelli, Piano delle Fosse – dal barbiere, in edicola, nei ritrovi dei più anziani nessuno rammentava una storia simile. Così come era risultato vano, in un primo momento, interpellare chi, per trascorsi, diletto personale o impegno civico qualche memoria ha scelto di preservarla: mi rivolsi, infatti, – e successivamente il tentativo si rivelò azzeccato – ai vari Franco Anastasio, Vittorio Savoia, Totò Castellano, Fortunato Costantino notoriamente custodi dei fatti passati. Ma di Ernesta non vi era alcun ricordo. Una piccola breccia si aprì paradossalmente interpellando un giovane prete, don Vittorio Castagna. In contemporanea, un lumicino rischiarò improvvisamente anche il cassetto di Franco Anastasio. Tra i meandri di entrambi, i flashback portarono alla stessa persona: Salvatore Genovese, proprietario di una storica cartoleria in via Roma, oggi residente in Alta Italia. Lui Ernesta l’aveva conosciuta ed è stato dalle sue preziose informazioni che il gomitolo si è dipanato e dai ferri, come per incanto, hanno preso forma sembianze, storie, emozioni. E mentre Nino cristallizzava gli aspetti più importanti e, per certi versi, inaspettati della vicenda come la cattura di Ernesta e dei suoi familiari, avvenuta nella basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma; l’intercessione di padre Pfeiffer per la loro liberazione e l’intreccio con le Fosse Ardeatine e Primo Levi, a Gioia, pian piano, si svelavano gli aspetti più ordinari di Ernesta. Chi l’aveva incrociata tra i suoi passi la ricordava come una donna buona che da giovane aveva certamente avuto un bell’aspetto – lo confidavano i suoi capelli ancora biondi e gli occhi azzurri – dal carattere dolce e gioviale ma riservata. Un giorno si presentò nel negozio di ferramenta di Franco Anastasio e gli disse scherzosamente che conosceva lui e la sua merce, perché aveva lavorato a lungo per un suo fornitore, la ditta “Cantini” di Roma; a Genovese rivelò la sua deportazione mostrandogli la matricola che aveva ancora marchiata sul polso, un macabro tatuaggio che rammenta anche il dott. Vincenzo Frangella, medico di base che l’aveva come assistita. L’ha conosciuta, ad esempio, anche la famiglia Borgese di cui è stata molto amica. Alcuni la ricordano indossare una collana con la stella di David sul petto; camminare a piedi verso viale Italia, in una delle cui traverse abitava – nei giorni scorsi battuta palmo a palmo dalla vigilessa Consuelo Sgambetterra, da me interpellata, alla ricerca di un vicino che ne conservasse memoria. Poi, un giorno di giugno del ’97, Ernesta andò via per sempre, in silenzio. Come nel silenzio e nell’anonimato aveva vissuto la sua esperienza gioiese. Raccontano si cercasse invano un Rabbino che le potesse impartire l’estremo conforto. Fu così che una donna che l’accudiva pensò di mandare a chiamare proprio quel Salvatore Genovese che l’aveva avuta come cliente della sua cartoleria e che, a quanto pare, era un appassionato di cultura ebraica. Recitò al suo capezzale alcuni passi del Deuteronomio e dei Salmi; poco prima, il dott. Frangella ne aveva constatato il decesso. Adesso, per me, Ernesta è diventata Ernestina. Uno di quei diminutivi che si usano con le persone che conosci da tempo. E lei mi sembra di averla sempre conosciuta. Continuare a indagare su tutto il resto sarebbe superfluo perché alla fine, dice bene Nino, è giusto ossequiare il suo silenzio e riserbo. Che non deve diventare però oblio. La comunità ha il diritto di sapere e il dovere di ricordare. Che Gioia Tauro ha avuto l’onore di ospitare una donna che ha visto le atrocità dei campi di sterminio, che fu testimone della Storia con la S maiuscola, che visse dignitosamente il suo dolore per il resto dei suoi giorni. Il prossimo 27 gennaio ricorre la Giornata della Memoria in commemorazione delle vittime dell’Olocausto ma la memoria non può essere accesa a intermittenza, un solo giorno l’anno. Gioia Tauro, poi, ha una doppia possibilità: dare un significato in più a questa data rendendo il giusto ricordo alla “sua” Ernestina e riaccendere quel desiderio di memoria da troppo tempo sopito. Grazie a Nino Princi per aver richiamato una storia così importante e suggestiva, rendendo un servizio alla comunità gioiese, e grazie a tutte le persone, miei concittadini, che ho ripetutamente importunato, per la pazienza avuta nei miei confronti. Buona lettura.