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Una mattina mi son svegliata: Teresa Talotta Gullace e i fatti del 3 marzo ’44

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Questa voce fa parte [part not set] di 2 nella serie Teresa Talotta Gullace

1. Una mattina mi son svegliato

Roma, 26 febbraio 1944.

Quella mattina Girolamo Gullace si sveglia e va a fare quattro passi. L’uomo ha circa 40 anni, è sposato con Teresa Talotta e hanno cinque figli, più un sesto in arrivo.

Girolamo lavora come manovale, è emigrato da Cittanova nel 1921, all’età di 18 anni. In realtà qualche anno dopo è rientrato in Calabria, giusto in tempo per sposarsi con Teresa e provare a rifarsi una vita in paese per poi decidere di rientrare a Roma.

La famiglia vive in vicolo del Vicario, in un quartiere a ridosso del Vaticano. Da alcuni punti si riesce a vedere il Cupolone quasi come se lo si potesse tenere tra le mani, ma è un effetto ottico. La zona infatti è chiamata Valle dell’inferno. Perché è zona di fornaci, secondo alcuni; perché è una baraccopoli, per altri.

Girolamo sa di essere povero. Le condizioni di vita sono al limite della sopravvivenza e non può permettersi di stare troppo tempo in casa senza fare niente.

Il figlio Umberto, il secondogenito, ripercorrendo quel periodo dirà:

Abitavamo a Vicolo del Vicario1 in una baracca formata da una sola stanza piccola e ci vivevamo in sette. La fontana per l’acqua e il bagno, se così si può chiamare, erano esterni, non c’era né gas né luce. Era un villaggio di baraccati formato da meridionali che venivano tutti dalla Puglia, dalla Sicilia, dalla Calabria. Tra queste povere persone chi poteva si comprava un pezzetto di terra e faceva l’orto, cosi poteva raccogliere un po’ di verdura e di frutta. Di quel periodo ho un brutto ricordo per via della povertà. La mattina mia madre usciva e mi portava sempre con lei. Andavamo ai circoli San Pietro dove c’erano le suore che facevano da mangiare. Mi portava li, andavamo in cucina dove ci davano un piatto di minestra, la carne non si vedeva mai, e cosi mangiavamo qualcosa.2

Girolamo non ha voglia di pensare a tutte queste cose: è reduce da una settimana in cui ha avuto dei problemi di salute, adesso sta bene e ha voglia di uscire, di svagarsi, ha premura di andare a vedere se il cantiere c’è ancora, vuole raccogliere le idee e ricominciare a darsi da fare per portare il pane a casa.

Imbocca di buon passo la via Aurelia e si dirige verso Largo di Porta Cavalleggeri. Intorno a lui, saettano i tram: quando il mezzo passa dalle vie più trafficate, i passeggeri maschi si nascondono sotto i sedili. Hanno paura, si dice che in quel periodo gli italiani insieme ai tedeschi rastrellino dappertutto. Vanno a caccia di uomini buoni per essere arruolati, ma anche di ebrei, imboscati, partigiani. Di chiunque in qualche modo rappresenti un elemento di destabilizzazione per quel cosmo nazifascista che giorno dopo giorno si sta comunque sgretolando, con gli americani impantanati tra Anzio e la Capitale ma pur sempre vicini. E in più c’è un Questore a capo della Polizia della R.S.I. in città, di nome Pietro Caruso, nominato da poco, che ha voglia di farsi notare. Probabilmente non gli va giù che il suo primo giorno nel nuovo incarico, durante un’operazione di polizia in via Nazionale, fu scambiato per un cittadino qualunque, fermato, caricato in un camion e portato alla caserma Macao in attesa di essere spedito in Germania. Ci metterà qualche ora a convincere la polizia che era proprio lui il nuovo Questore, e si salverà solo grazie all’intervento di un militare che lo riconobbe. Il 3 febbraio Caruso insieme ai tedeschi e a gente della Banda Koch è entrato persino a San Paolo fuori le mura, violando il patto di extraterritorialità col Vaticano e imprigionando una sessantina di persone che si erano nascoste lì dentro. Molte di loro moriranno nei campi di concentramento, come la famiglia Mieli per esempio, della quale si salverà soltanto Ernestina, che finirà i suoi giorni a Gioia Tauro, negli anni Novanta, e verrà seppellita a Delianuova.3

A proposito di Pietro Koch: quando nel giugno 1945 fu giustiziato su decisione dell’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, Luchino Visconti si offrì di filmarne l’esecuzione. Lo fece perché, a sua volta, era stato torturato dallo stesso Koch nell’aprile del 1944.

Caruso invece fu giustiziato, sempre su decisione dell’Alta corte, tramite fucilazione alla schiena il 20 settembre del 1944. Tra i componenti dell’Accusa c’era anche Mario Berlinguer, padre di Enrico.

Ma torniamo a Girolamo: sapeva che cosa volesse dire uscire a fare quattro passi a Roma nell’inverno del ’43? Forse sì, sapeva dei rastrellamenti in giro ma non aveva nulla da temere: era un padre, un italiano, un lavoratore.

Evidentemente però, questo non bastava. Arrivato dalle parti di Porta Cavalleggeri infatti, due carabinieri lo fermano. Girolamo avrà pensato che fosse un semplice controllo, ma piano piano inizia a convincersi che quel giorno avrebbe potuto fare a meno di uscire a passeggio. I carabinieri infatti lo portano prima al distaccamento di via delle Fornaci e poi alla Caserma di viale Giulio Cesare. Era un passaggio che non prometteva niente di buono: quel posto infatti era ormai diventato un luogo di detenzione di decine di rastrellati, un’altra valle dell’inferno.

E fu così che da quel giorno, ogni mattina, Teresa andrà dal marito a portargli un po’ di cibo.

Fino al 3 marzo.

In quei giorni a Roma ci sono tutti e non c’e nessuno: ci sono i tedeschi agli ordini del comandante Kappler; i repubblichini; la polizia, che finirà in parte assorbita nelle formazioni repubblichine; i carabinieri, che giurano fedeltà al Re e non a Mussolini, e quindi sono visti con diffidenza dai tedeschi. Il 7 ottobre del ’43, questi ultimi caricano sui loro camion circa 2000 carabinieri provenienti da diverse caserme della città e si dirigono verso le stazioni Ostiense e Trastevere, e da lì ai Lager in Germania. È accertato che oltre 600 di loro non faranno più ritorno.

Erano insomma tempi molto duri anche per le forze dell’ordine. Si spiega così, forse, perché i due carabinieri non abbiano lasciato andare Girolamo. Paura per quanto accaduto mesi prima e timore di essere considerati fiancheggiatori dei partigiani dai tedeschi, e quindi puniti, oppure dogmatico rispetto per un ordine impartito dai propri superiori.

Per quanto riguarda i partigiani invece, a partire dal dicembre del 1943, si intensificano le azioni dei Gruppi di Azione Patriottica nella città.

Queste azioni dei GAP diventano più frequenti anche grazie allo sbarco degli Alleati ad Anzio, il 22 gennaio del 1944. Si crea una questione politica: i partigiani desiderano intestarsi la cacciata dei tedeschi da Roma prima dell’arrivo degli alleati, che si crede imminente, ma non possono sapere che questi ultimi entreranno a Roma solo il 5 giugno del ’44.

Dal canto loro i tedeschi, come abbiamo visto, attuano una strategia basata sulla paura.

Per questi motivi i primi mesi del ’44 rappresentano una stagione molto intensa della lotta partigiana a Roma: ai GAP non basta più colpire automezzi, depositi di carburante, linee di comunicazione. Si decide di alzare il livello dello scontro, consapevoli del fatto che i tedeschi in città sono in numero ridotto, circa 25000 militari in totale.

Ordigni scoppiano all’Hotel Flora, sede del Tribunale di guerra germanico; davanti al carcere di Regina Coeli; nella sede di un’autorimessa tedesca; un ulteriore ordigno è piazzato in una sede del refettorio delle truppe germaniche vicino alla Stazione Termini. A un certo punto, si decide anche di intervenire proprio lì, nella Caserma di viale Giulio Cesare. Si tratta di un luogo simbolico dove vengono rinchiuse centinaia di persone con l’intento, tra gli altri, di trovare forza lavoro da mandare ad Anzio a costruire fortificazioni contro l’avanzata Alleata.

Il 3 marzo del 1944 pertanto, era presente davanti alla caserma di viale Giulio Cesare la crema dei gappisti romani, alcuni dei quali saranno poi presenti in via Rasella.

Leggiamo cosa ci dice Mario Fiorentini, uno di loro, presente quel giorno:

Noi non potevamo stare davanti alla caserma per cui ci aggiravamo tra piazza dei Quiriti, via Germanico e via Fabio Massimo. Sostavamo lungo la strada divisi in quattro gruppi: uno diretto da me e uno da Franco Calamandrei per i GAP Centrali; uno da Mario Carrani Seconda Zona e uno da Alfredo Orecchio Terza Zona per i GAP di Zona; in totale eravamo circa venti. L’azione era diretta da Fabrizio Onofri. Noi dovevamo attaccare la caserma per liberare quanti piu prigionieri era possibile. C’era anche Laura Lombardo Radice. Poi tra la caserma e noi c’era Luigi Pepe, un giovane magistrato che faceva la spola tra il Ministero della Giustizia e la Caserma. A un certo momento Luigi Pepe si avvicina a Laura Lombardo Radice e a Lucia Ottobrini e dice: stiamo arrivando, stiamo per attaccare.4

Laura Lombardo Radice si era unita alla protesta insieme alla diciottenne Adele Maria Jemolo. Con loro c’erano Marcella Lapiccirella che era incinta (perse il bambino pochi giorni dopo). Sempre lì, tra la folla, erano presenti Carla Capponi e Marisa Musu.

Chi erano queste persone?

Laura Lombardo Radice è stata una delle fondatrici dell’UDI, l’Unione donne italiane. Compagna di Pietro Ingrao fino alla sua morte. Adele Maria Jemolo, figlia di Arturo Carlo Jemolo, si occupava principalmente di logistica e propaganda. Sposò Lucio Lombardo Radice, fratello di Laura. Marisa Musu voleva iscriversi al PCI già a 16 anni, ma il partito rifiutò l’iscrizione perché era minorenne. Il suo nome da partigiana era Rosa. Carla Capponi all’epoca dei fatti era già in clandestinità. Sarà eletta deputata nel PCI in due legislature e ha fatto parte sino alla morte del Comitato di presidenza dell’ANPI. Lucia Ottobrini visse fino al 1939 in Alsazia, per cui parlava un perfetto tedesco che le salvò più volte la vita. Franco Calamandrei era figlio di Pietro, e diverrà senatore con il PCI. Fiorentini diverrà Professore ordinario di geometria. Onofri sarà uno scrittore e sceneggiatore di film importanti, e in seguito si staccherà dal PCI per avvicinarsi al PSI.

Carla Capponi

Marisa Musu

Laura Lombardo Radice

Torniamo alla nostra storia. Ci dice Laura:

Due giorni prima dei fatti eravamo state incaricate di raccogliere per quella mattina il maggior numero di compagne perché si mescolassero alla piccola folla davanti alla caserma doce erano stati rinchiusi i “razziati” per il servizio del lavoro. (…) Dovevamo cercare di darle una carica, di parlare con loro, gridare con loro. (…) Preciso che noi agivamo in modo del tutto autonomo rispetto ai GAP, che ci chiesero solo di essere molte, di fare pressione, se possibile di avvicinarsi alla caserma ecc.5

Insomma, erano tutti lì, pronti ad assaltare la caserma. Ma qualcosa successe, all’improvviso.

2. Facciamo conto che sia companatico

La mattina del 3 marzo, la trentasettenne Teresa si sveglia con il pensiero che Girolamo non abbia niente da mangiare. Aveva scambiato i bollini del burro con quelli della pasta ma serviva qualcos’altro, del pane per esempio. Così si alza, recupera due sfilatini, li prepara con delle patate lesse e ci aggiunge una boccetta di vino rosso, almeno Girolamo si fa una bevuta e si scalda un po’. Dopodiché, prende i figli Caterina e Umberto e si dirige verso la caserma. Prima di andare in viale Giulio Cesare, Teresa passa dall’asilo dalle suore a lasciare la piccola Caterina. La bambina piange perché, lo dice lapidariamente, ha fame. La suora prende in disparte Teresa e le dice che è da tempo che non pagano la retta e che se va avanti così alla bambina non potranno dare i pasti. Teresa risponde nervosa: adesso non ho con me i soldi, e in più sto andando in carcere a trovare mio marito. Ve li darò presto.

Poi si incammina con Umberto verso la caserma. Mano a mano che si avvicinano, la folla si fa sempre più numerosa. C’è chi si arrampica sui cancelli, chi urla, chi si lamenta. Teresa non poteva sapere che qualche giorno prima era stato fatto un impressionante rastrellamento che aveva ingrossato ancora le fila di quei prigionieri e aumentato la folla fuori. Quella caserma era perciò diventata un luogo simbolico, e per questo aveva fatto gola ai partigiani. Chissà se Teresa avrà incrociato uno di loro appostato da quelle parti, agli angoli delle strade?

A bordo di un motociclo, due tedeschi sparano colpi di mitra vicino alle inferriate per impedire ai prigionieri di affacciarsi. Dopodiché, puntano l’arma contro le donne, per intimidirle. Girolamo riesce comunque ad attirare l’attenzione di Umberto e fa in tempo a dirgli di correre al cantiere lì vicino per farsi dare un certificato, una carta, qualcosa per dimostrare che lui era un lavoratore, tanto più che il cantiere in cui era impiegato era gestito da due tedeschi.

Umberto corre verso il cantiere, Teresa rimane lì. Al cantiere però non ci sta nessuno, gli dicono di aspettare che da un momento all’altro sarebbero arrivati i proprietari. Lui si siede e aspetta. Passa così oltre un’ora.

Che ne è degli altri figli? Emilio, il più grande, in quel momento ha l’obbligo di presentarsi alla Caserma Macao per fare il militare (era la stessa dove un mese prima era stato portato Caruso). Mario, il terzo figlio di 11 anni, sta facendo la coda dalle monache di Santa Marta, vicino a San Pietro, per elemosinare un po’ di cicerchia e polenta. Gliela danno, ma si accorge che dentro ci sono dei piccoli scarafaggi. Prova a levarli ma non ci riesce. La fame è tanta, e a un certo punto si dice: facciamo conto che sia companatico.

Caterina l’abbiamo lasciata all’asilo che piangeva per la fame e poi c’era un’altra piccola, che probabilmente in quel momento era a casa con una vicina. Il sesto figlio invece era nel grembo di Teresa, ed era lì da sette mesi ormai.

Teresa Talotta Gullace

Nel frattempo la ressa aumenta di intensità, diventa come un’onda. Il nervosismo è contagioso, la folla è in grado di fare cose che i singoli individui non farebbero mai.

Leggiamo le testimonianze di quanto accaduto, partendo da quella di Livio Jannattoni, un giornalista del “Messaggero”:

Una donna, in stato di palese gravidanza, a un certo punto non resse più a quell’inferno. Si diresse decisa verso il tedesco e gridò e inveì contro di lui (…). L’altro non si scompose. Nel momento che stimò più opportuno, appena arretrando di un passo per meglio bilanciarsi, quasi fosse a un’esercitazione, diresse l’arma contro la donna facendo partire una raffica a bruciapelo. (…) I clamori si raggelarono in un baleno (…). Soltanto la maledetta guardia (ero lì, a pochi metri) continuava a rimanere al suo posto, impassibile, quasi assente.

Girolamo, che ha assistito alla scena da dietro le sbarre, in un primo momento non ci crede.

Leggiamo:

Io, dal finestrone della caserma dove ci avevano portati, l’ho vista cadere a faccia avanti. Ma non ho pensato neppure per un momento che le avessero sparato. Ho creduto che fosse svenuta così per la gravidanza, la fatica, l’emozione.

Poi nota la chiazza di sangue, e fa il finimondo. Verrà liberato, come per un maldestro e inutile gesto di risarcimento. La folla ammutolisce. Il cadavere viene portato subito all’obitorio.

E i partigiani? Leggiamo la versione di Mario Fiorentini:

Carla Capponi e Marisa Musu erano presenti tra la folla di donne che si accalcava, quindi non erano vicine a Laura e Lucia e non potevano sapere che noi stavamo per attaccare. Carla, che era molto intemperante, si è messa a sbraitare e i fascisti l’hanno arrestata. Fabrizio Onofri che dirigeva l’azione militare non poteva più dare l’ordine di attaccare perché c’erano le nostre in carcere (…). Poi accadde che in seguito all’uccisione della Gullace arrivarono i rinforzi della polizia e allora l’azione si complica ulteriormente perché non si trattava più di tre o quattro soldati. (…) A un certo momento che cosa è successo, hanno rilasciato Carla. E quindi noi attacchiamo questi della guardia e ne facciamo fuori alcuni. Poi dopo un poco arrivano le truppe tedesche e noi scappiamo.6

Carla Capponi racconta che dopo essersi procurata due mazzetti di dieci volantini che incitavano le donne ad attivarsi contro l’occupazione nazifascista, si dirige verso la folla dopo averne lanciato in aria alcuni.

(…) Per non essere individuata dopo quel lancio, mi ero spostata all’altezza di piazzale dei Quiriti quando sentì un gruppo di uomini aggrappati a un finestrone che gridavano insieme lo stesso nome: «Te-re-sa! Te-re-sa!». Seguì un nuovo trambusto e tutte spingemmo per far passare la donna che rispondeva gridando. Nel blocco dei militari si era aperta una falla e ora lei correva verso la caserma, sola; un bambino la raggiunse. Giunta sotto il grande finestrone, la donna lanciò in alto un pacchetto, certamente povere cose da mangiare. Dalla grata si protesero molte braccia, il pacco battè sul muro sotto la finestra e cadde a terra. (…) Teresa si chinò, raccolse il pacco e si allontanò un poco dal muro della caserma per prendere di nuovo la mira. A un tratto, sulla destra, vidi un tedesco giungere in moto: si fermò e, lasciata la moto, raggiunse la donna. In una frazione di secondo pensai: “Ora l’ammazza! “. Mi spostai in avanti ponendomi tra i due militi, mentre le donne avevano ripreso a vociare e a spingere; il contatto a corpo a corpo mi toglieva il respiro, tenevo la rivoltella in tasca, stretta nella mano. Il tedesco, forse un graduato, afferrò la donna per il braccio: il pacco era caduto a terra, e lei si divincolava gridando qualcosa che si perse nel frastuono delle voci. Lui l’afferrò di nuovo per il petto e quasi la sollevò da terra: pareva così piccola in mano a quel gigante che incombeva su di lei! Dalle finestre gridavano. Il bimbo s’era chinato a raccogliere il pacco e in quel momento ci fu l’esplosione: il tedesco aveva tratto la Luger dalla fondina e aveva colpito la donna dall’alto della sua mole.7

È una versione particolare, perché viene aggiunto il dettaglio del bambino insieme a Teresa, che invece i figli Umberto e Mario non citano, e questo fa venire il sospetto che la Capponi forse abbia aggiunto del suo. In ogni caso, Carla ci racconta che dopo l’episodio estrae una pistola e la punta contro l’ufficiale tedesco. Alcune donne vicino a lei le impediscono di sparare. Prima che la Capponi venga arrestata, Marisa Musu riesce a sottrarle la pistola e a infilarle in tasca una tessera del partito fascista che, durante l’interrogatorio, le salverà la vita. Viene infatti rilasciata.

Anche Laura è presente, l’avevamo lasciata che arringava la folla di donne.

Leggiamo:

Io non potrei giurare che sia stato l’SS in motocicletta, che passò con la rivoltella puntata – ma non potrei giurare che fece fuoco. Ricordo bene il suo viso pallido, i capelli gialli e la divisa nera, – oppure se fu uno di quei disgraziati ragazzacci della ricostituita milizia fascista, quelli con la divisa giallastra, che facevano il servizio d’ordine con i fucili tremanti in mano e pronti a perdere la testa e sparare. (…) So che la donna era nel mucchio, forse mezzo passo fuori e che cascò di botto, morì all’istante, al margine del largo marciapiede. Venne, in una confusione e uno sgomento terribile di tutti, una autoambulanza: il marito fu fatto scendere dalla caserma dove era rinchiuso e caricato pure lui sull’autoambulanza. (…) Qui ho avuto la mia parte: prima di tutto tirai fuori, con Marcella e Adele Maria, tutti i soldi che avevo e mandai Adele a comperare un mazzo di fiori che sistemammo sulla grande macchia di sangue della povera Teresa: costituì per tutta la giornata un punto di riferimento, si fermava la gente, piangeva, si informava, comunicava (…).

Nel frattempo Umberto si è stancato di aspettare e torna in viale Giulio Cesare per ricongiungersi con sua madre. Leggiamo la sua testimonianza:

Pensavo a mia madre sola e cosi decisi di tornare a viale Giulio Cesare. Arrivo, scendo dal tram, e vedo tutta questa gente zitta, silenziosa, sembrava una cosa surreale. Io mi dicevo: ma cosa è successo. Allora inizio a guardarmi intorno per cercare mia madre. Mi avvicino verso il marciapiede e vedo che ci stava una montagna di mimosa e vicino un vecchietto seduto su uno sgabello. Io fra me mi sono detto: ma che è scemo questo, co’ ‘sto macello che ce sta questo venne la mimosa. Mi avvicino e vedo che sotto la mimosa ci stava una macchia di sangue. Allora inizio a girare tra la gente e sento che dicevano: povera donna, disgraziati, che fine le hanno fatto fare. Capirai, a me mi ha preso un colpo, perche non vedevo mia madre. (…) Mamma nel frattempo l’avevano gia portata all’obitorio del Santo Spirito, ma io non lo sapevo, li c’erano solo le mimose. Per avere conferma se le fosse accaduto qualcosa mi reco a via Candia, dove c’era una donna amica di mia madre. Si facevano coraggio l’una con l’altra. Questa aveva una bottega perche il marito faceva il ciabattino. Entro e vedo questa donna seduta sulla panca che piangeva, e mi dice: ‘vieni qui che adesso mamma torna’. E piangeva. Io avevo quattordici anni, ed ho subito capito che la botta era toccata a lei. Abbiamo fatto il funerale con il camion del Comune, in fretta, perché non volevano che si sapesse.

E Mario? Lo avevamo lasciato che cercava di elemosinare un po’ di cibo dalla suore: mentre aspettavo, sentivo della gente che urlava ‘hanno ammazzato ‘na donna!’. Ma non capivo cosa stesse accadendo. Pensavo che mamma sarebbe arrivata con i buoni per avere il pasto. Invece non arrivò, e la monaca mi cacciò via in malo modo. (…) Ho saputo della tragedia quando sono arrivato a casa.

 

1 Laura Lombardo Radice scrive invece, in una lettera citata più avanti, che la famiglia abitava in via dei Gelsomini. Ma chiaramente dovrebbe fare più testo la dichiarazione di Umberto.

2 La testimonianza è tratta da un’intervista a Umberto di Massimo Sestili apparsa su “Patria Indipendente”, aprile 2013.

3 Per la storia di Erniestina Mieli: https://www.aldiladellostretto.com/la-silenziosa-testimonianza-di-ernesta-mieli/

4 Ib.

5 Testimonianza contenuta in Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Ed. Riuniti 1973, p. 277.

6 L’episodio dell’attacco alla caserma è confermato dal saggio di G. Ranzato contenuto in: Dizionario della Resistenza – Vol. I, Einaudi, p. 419: Dopo che un SS ha ucciso con un colpo di pistola una donna che tentava di raggiungere il marito – la Teresa Gullace alla cui morte si ispirerà la piu famosa scena del film di Rossellini –, i Gap attaccano il cordone dei militi, abbattendone alcuni e consentendo a diversi prigionieri di fuggire. Ne dà conferma anche Laura Lombardo Radice nella lettera citata più avanti, in cui parla della morte di tre guardie repubblichine.

7 La testimonianza è tratta da C. Capponi in Con cuore di donna, il Saggiatore 2000, pp. 145-150.

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